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Paris Massimiliano - Viaggio al centro delle tenebre

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Paris Massimiliano - Viaggio al centro delle tenebreParis Massimiliano - Viaggio al centro delle tenebre Massimiliano Paris Viaggio al centro delle tenebre Dracula, Frankenstein, Jekyll, Dorian Gray tra Eros e Thanatos I mostri tra letteratura, psicoanalisi e quotidiano ? Lalli Editore S.r.l. 1992 In co...

Paris Massimiliano - Viaggio al centro delle tenebre
Paris Massimiliano - Viaggio al centro delle tenebre Massimiliano Paris Viaggio al centro delle tenebre Dracula, Frankenstein, Jekyll, Dorian Gray tra Eros e Thanatos I mostri tra letteratura, psicoanalisi e quotidiano ? Lalli Editore S.r.l. 1992 In copertina: Incubo (particolare) di Johann Heinrich Füssli (1790-1791) Indice Prima prefazione di Luigi De Marchi..................................................................................................... 3 Prima prefazione di Giancarlo Lehner ................................................................................................... 6 Viaggio al centro della notte .................................................................................................................... 7 Introduzione ........................................................................................................................................... 8 1. Quel ?qualcosa? di fantastico ......................................................................................................... 10 Il romanzo fantastico ....................................................................................................................... 11 Il mondo del fantastico .................................................................................................................... 11 2. Dracula, o il fantastico interiore ..................................................................................................... 14 Il ?Dracula? di Stoker ..................................................................................................................... 14 Dracula conserva due scrigni: ?Eros e Thanatos? ....................................................................... 17 Chi è Eros? ....................................................................................................................................... 17 3. Lo schock esistenziale ..................................................................................................................... 20 La tesi del viaggio ............................................................................................................................ 22 4. Il Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno: ovvero il presagio di Villa Diodati .................... 23 La nascita ......................................................................................................................................... 23 La struttura del Frankenstein .......................................................................................................... 24 Primo livello. L’onnipotenza della ?ratio? .................................................................................... 25 Secondo livello. Fenomenologia del ?doppio? .............................................................................. 27 Terzo livello. La maternità perturbante.......................................................................................... 29 5. Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde ............................................................................ 31 La genesi del romanzo ..................................................................................................................... 31 La storia ............................................................................................................................................ 31 Polarità Jekyll-Hyde ........................................................................................................................ 34 Il Dr. Jekyll e il cinema.................................................................................................................... 39 6. Il ritratto di Dorian Gray ................................................................................................................. 43 7. Il cinema dell’orrore ovvero il mostro è in gabbia ........................................................................ 47 8. Curiosando tra le fauci del mostro ................................................................................................. 49 9. Eros e Thanatos: gemelli dell’anima .............................................................................................. 53 10. L’approdo....................................................................................................................................... 55 Bibliografia.............................................................................................................................................. 56 Ringraziamenti ........................................................................................................................................ 58 Prima prefazione di Luigi De Marchi In questo Viaggio al centro delle tenebre di Massimiliano Paris (un saggio sul romanzo gotico che ha un bel titolo da romanzo gotico) mi sembra di scorgere due ?movimenti? essenziali, contraddittori in apparenza ma forse, in profondità, complementari. Il primo movimento è di accostamento, anzi di studio appassionato e d’incondizionata e innamorata adesione al romanzo gotico ed ai suoi miti granghignoleschi (da Frankenstein, a Dracula, a Mr. Hyde). In questa parte del libro Paris evidenzia molto bene un filone psicologico del romanticismo che, spesso, viene trascurato o dimenticato nelle rappresentazioni oleografiche che di quel momento storico e culturale ci sono proposte. Ben lungi dall’essere, o dall’essere soltanto, un’epoca di trasalimenti sentimentali e idealistici, di struggimenti wertheriani e d’entusiasmi carbonari, il romanticismo è stato anche, e forse soprattutto, un’epoca d’inquietudini, di trasgressioni, d’ostentata o malcelata esaltazione della violenza (specie sessuale), come il classico lavoro di Mario Praz The Romantic Agony acutamente dimostrò già negli anni ’30. Chi oggi deplora il disordine dalla ?gioventù moderna? e rimpiange i ?bei tempi andati?, farà bene a leggersi, nel quarto capitolo di questo libro, la descrizione del clima e dell’ambiente in cui nasce l’idea del ?Frankenstein?. Altro che crinoline e slanci idealistici! Qui sembra di leggere un mattinale della questura per i cronisti di ?nera?. Dunque il romanticismo ?rispettabile? è un’invenzione della cultura ?rispettabile?? No, affatto: è piuttosto quest’altro aspetto dell’epoca romantica una rimozione della cultura ?rispettabile?. E in quest’altra faccia, la faccia oscura della luna romantica, si tuffa con entusiasmo di neofita Massimiliano Paris, arrivando a volte a slanci d’identificazione a dir poco sconcertanti. Così, per esempio, se con un po’ di buona volontà il mio fondaccio maschilista può aderire all’affermazione di Paris che, alla fin fine, ?tutti vorremmo essere come Dracula? (anche se, per parte mia, non è alla trasfusione che penserei, avendo tra le braccia splendide fanciulle illanguidite dal desiderio), devo ammettere che non mi sono mai identificato con la vittima, al cinema, fino al punto di ?coprirmi il collo? per timore che Dracula... mordesse me, né ho mai sognato di accovacciarmi ai piedi di Dracula per farmi da lui ?mordere senza più difese?... Ma si sa, la passione dei fan non ha limiti. E quella di Paris è una passione doppiamente perdonabile, perché non ostacola l’analisi critica, anzi la nutre. Così, armato degli strumenti d’analisi psicologica che egli lealmente mi attribuisce, Paris può acutamente individuare la radice comune a tutto l’immaginario orrifico (dal romanzo gotico al cinema horror, da Frankenstein a Dracula a Mr. Hyde a tanta parte della fantascienza). Quest’immaginario – conclude Paris – esprime in varie forme uno stesso tentativo di esorcizzare e vincere la morte. Esso è dunque una delle tante formazioni reattivo-difensive erette dalla mente umana per placare la propria angoscia di morte. Ma qual’è dunque, nel caso specifico, il meccanismo adottato? Ce lo spiega con estrema chiarezza Otto Rank, allievo prediletto di Freud poi emarginato dalla psicoanalisi ufficiale proprio per le sue coraggiose ricerche sull’angoscia di morte, al quale ho dedicato un mio recente libro (Otto Rank, Pioniere Misconosciuto, Melusina, Roma, 1992). ?L’aggressività – scrive Rank in Will Therapy (New York, 1932) – è un altro diffusissimo modo per difendere l’Io dall’angoscia della morte... L’angoscia di morte del singolo, infatti, è diminuita dall’uccisione, dal sacrificio dell’altro: mediante la morte dell’altro l’uomo conquista la sensazione illusoria d’essersi liberato dall’obbligo e dalla punizione della propria stessa morte?. Già con questa presa di coscienza del meccanismo psicologico che sta alla radice del Frankenstein e di tanti altri ?mostri? della letteratura, del cinema e del fumetto, Paris sa prendere anche le distanze dai furori cruenti del romanticismo nero. Ma è soprattutto nel secondo ?movimento? del libro, cui accennavo all’inizio, che mi sembra delinearsi anche a livello emozionale ed etico il superamento di quei furori: e non in un’ottica di repressione moralistica, ma in un processo di maturazione umanistica. Quest’ottica della solidarietà umana, questa religione dell’uomo che si profila oltre le macerie delle religioni istituzionali, emerge chiaramente nelle ultime pagine del libro, là dove Paris parla della Vita e della Morte: ?L’uomo e la donna si riprendono finalmente per mano. Un bimbo è con loro e li guarda con occhi pieni di domande. Finalmente il gelo della notte lascia le membra dei due giovani amanti. Non ci sono fantasmi alla luce del giorno... Ma anche quando la morte tocca da vicino, quando quest’abisso orrido e senza fondo inghiotte una persona cara e insostituibile, e la sofferenza sgorga impetuosa dalle crepe della nostra onnipotenza e il dolore lacerante e senza rimedi non può essere lenito da nessun mito di cartapesta... se sopravviviamo a un tale sconvolgimento, abbiamo la possibilità di risaldare insieme i frammenti di un umanesimo ritrovato, di rinnovare il nostro amore commosso e profondo per questa tenera scimmietta?: appunto l’essere umano. Ma si badi: questa non è affatto una capitolazione al conformismo. Al contrario, è stata proprio l’ipocrisia d’un certo romanticismo celestiale a generare i mostri sadici del romanticismo nero, com’è stata l’ipocrisia del puritanesimo vittoriano a generare lo squallore dei bordelli sado-masochisti di Londra e Vienna. Anche se Mary Wollstonecraft intitolò il suo romanzo ?Frankenstein: Il Prometeo Moderno?, al suo eroe, come ai Dracula e ai Dottor Mabuse della degenerazione filmica, manca l’ingrediente fondamentale del Prometeo originario: la compassione, la solidarietà con gli altri uomini, la fiducia nella fondamentale e insopprimibile esigenza d’amore e creatività che caratterizza la sventurata e meravigliosa scimmietta umana. La concezione umanistica sa però che, misteriosamente, questa fondamentale spinta creativa, costruttiva e solidaristica dell’essere umano, del Prometeo autentico, si nutre anche con le vibrazioni della rivolta e della trasgressione. Come ha detto un grande esistenzialista d’orientame umanistico, Albert Camus, ?Non c’è sole senza ombra e bisogna conoscere la notte?. E come Paris ricorda in chiusura del suo ?viaggio?: ?Chi nega l’abisso, rischia anche di negare l’esistenza del cielo?. Prima prefazione di Giancarlo Lehner Dio è morto ed anche noi non ci sentiamo tanto bene. Una banalità che pur convince. Che fare, dunque? Massimiliano Paris, che non a caso è uno stimato terapeuta, elabora in queste pagine una diagnosi e la cura. Se Dio è morto, rimane pur sempre l’Io. L’Io c’è e si fa sentire, dotato peraltro anch’egli della trinità: Non-Io, Super-Io, l’Io nudo e crudo. Tuffiamoci, dunque, ben dentro negli abissi egologici e lì assistiamo pazienti allo spettacolo sorprendente dell’inesorabile conflitto tra Eros e Thanatos. Chi siano lo spiega bene Paris, antico frequentatore di incubi, fantasie e bordelli psicologici, pur capace di disvelarsi anche come homo faber, come imprenditor cortese. I due pugilatori, Eros e Thanatos, del resto, sembrano nitidi e ben distinti, ma via via che la lotta prosegue le rispettive identità sfumano. C’è il fragore dei colpi, che sono bassi – la lotta è libera da regole razionali –, c’è l’angoscia di scoprire in noi stessi gli echi della battaglia; c’è l’odore della morte che nausea ed affascina, ma di Eros e Thanatos non resta che un groviglio pieno di nodi. E qui Paris dà il meglio di sé, cercando con diabolica pazienza di districare, di restituire ad ognuno il suo, di spiegare al lettore il chi-come-dove-quando dei mostri che lo abitano e lo invadono. E con i dovuti colpi di scena: quel bellimbusto di Eros promette sì godimenti e sudate lussurie, ma è proprio lui il becchino, lui l’ambasciatore del pensiero della morte. Il travet, il mediocre ragioniere, il doppiopetto di nome Thanatos è, alla fine, la mamma-rifugio, l’impianto solido e sicuro per ribaltare gli incubi e le paure. Al lettore, ovviamente, la scelta del preferito, con l’avviso, però – così insegna Massimiliano Paris –, che l’opzione è vana, perché Eros e Thanatos sono momenti di uno stesso circolo virtuoso e mettersi lì con gretto puntiglio a scinderli non vale la fatica. Si rischia di non capire poi molto. Non solo Dio, ma anche Sigmund Freud è bello che morto, morto con tutti gli alunni più o meno fedeli. E qui Paris celebra con godibili ricami il funerale ad ogni Weltanschauung che pretenda di spiegare tutto ed il contrario di tutto, psicoanalisi compresa, l’ultima Superbia di un secolo vanitoso ed apocalittico. Il che, naturalmente, non vieta commosse e stimolanti frequentazioni delle urne dei forti. E Freud, certo, merita un immane sepolcro. Rimane l’Io. Con lui e solo con lui possiamo giocare, sino a che morte non ci separi. Altro non c’è, così come non ci sono gli altri. Massimiliano Paris lo sa e disperatamente-ludicamente abbraccia, insidia, palpeggia e, talora, con orgasmo penetra quest’unica presenza. L’Io non è buono e misericordioso, non si sacrifica e non resuscita. Non fa miracoli, ma corre ed anela dentro di noi. Forse non per noi, ma con noi. Grazie, Massimiliano. Non ci sentiamo meglio, ma ce ne importa meno. Viaggio al centro della notte A Giorgio Gaber e a tutti ?quei mostri? che non hanno ancora rinunciato a vivere. Chi scrive finge, chi finge dice il vero, chi dice il vero falsifica la realtà. L’AUTORE Introduzione Essi costruiscono con pietre e non si accorgono che ogni loro gesto per posare la pietra nella calcina è accompagnato da un’ombra di gesto che posa un’ombra di pietra in un’ombra di calcina. Ed è la costruzione d’ombra che conta. JEAN GIONO È difficile parlare di Qualcosa che c’è, che esiste dentro di noi, se gli strumenti che usiamo per scovarlo sono gli stessi che normalmente adoperiamo per nasconderlo. Sto parlando di qualcosa di sfuggente, di impalpabile, di oscuro, ma nello stesso tempo di presente, tangibile, chiaro. Per afferrare questo Qualcosa forse sarebbe bene ricercare un linguaggio diverso, che attinga più dalle emozioni piuttosto che da una evidente realtà materiale. Forse il linguaggio scritto non è adatto ad illuminare questo Qualcosa che sfugge alla nostra conoscenza senza però tuttavia trascenderla completamente. Forse il linguaggio delle immagini riuscirebbe meglio in tale impresa, e perché no, il mondo dei sogni potrebbe risultarne la chiave disvelatrice. Ma purtroppo ho solo questa penna in mano e forse l’unico modo di aggirare l’ostacolo è scrivere di ricordi lontani nel tempo ma tanto vicini ancora e operanti nella mia mente. Da bambino vivevo con i miei genitori in una villetta bianca relativamente isolata rispetto al rimanente agglomerato urbano. Questa villetta era completamente circondata per tre quarti da un prato e la parte anteriore si affacciava su di un viale alberato. Ricordo ancora, con la memoria dei sensi, gli odori che emanava tale mondo: l’odore dolciastro della resina sui pini infuocati dal solleone, l’odore selvaggio del fieno bagnato, il magico torpore che saliva dalle margherite. Era insomma come se quel mondo emanasse una vita propria, avesse per così dire una propria fisionomia, una propria personalità addirittura: ed io vivevo immerso in quella magica atmosfera da esplorare guidato e protetto da folletti benevoli. Ai lati della villetta c’era quella parte di prato più incolto, e lì c’era la mia foresta, dove armato di una fionda e accompagnato dal mio fido cane Zara, davo la caccia alle lucertole, alle fienarole, e qualche volta trovavo dei passerotti che cadevano, nel tentativo di volare, dagli alberi adiacenti. Quando il bottino era scarso, c’era sempre da rincorrere le farfalle armato di cartoni e di buste di nylon. Nella parte posteriore della casa, oltre il piccolo cortile, c’era quella parte di prato che noi ragazzi avevamo adibito a campo di calcio. Era lì che, prendendo a calci un pallone di gomma spesso ovale, rincorrevamo i nostri miti sportivi (Mazzola e Rivera). Mi ricordo che spesso ancora sudati per le scorribande, sul far della sera sedevamo in circolo attorno ad un fuoco e ci raccontavamo storie di fantasmi e lupi mannari. È difficile ridare a parole le sensazioni che mi suscitavano quegli incontri. Era come se quell’ambiente illuminato dal sole, noto in ogni sua forma, odore, sapore, cangiasse come un camaleonte i propri colori, le proprie dimensioni, la propria natura addirittura. Il crepuscolo della sera scoloriva i contorni della mia casa e indeboliva sempre più i margini della mia sicurezza. Piano piano mi calavo in un’atmosfera di mistero, di ignoto, di inconoscibile; il fuoco mi saliva alle guance, gli occhi erano fusi con le fiammelle che si alzavano dal falò; i visi degli amici si allungavano, i nostri corpi erano ormai delle ombre, il cuore era impazzito, il collo mi faceva male ma non potevo muoverlo per la paura; gli alberi, teneri compagni dei miei giochi diurni, si curvavano alla furia del vento e proiettavano su di noi accovacciati i loro artigli avvolgenti. Mentre la storia procedeva nella sua enunciazione la voce assumeva toni sempre più marcati, più bassi. Qualcosa era accaduto, quel qualcosa era lì presente e alitava il suo fiato ammaliante su di noi. Quel qualcosa ci sconquassava nel corpo, ci penetrava nelle ossa, ci inebriava come un orgasmo sofferto. Quel qualcosa io lo afferravo in modo da poterlo vivere dentro, intensamente, nelle viscere, senza però poterlo catturare in modo adeguato. È a questo qualcosa, a questo eroe ribelle e dimenticato da una società di burocrati computerizzati che dedico questo mio libro. 1. Quel ?qualcosa? di fantastico E gli uomini preferirono le tenebre alla luce GIOVANNI, III-19 Prima di addentrarci in un mondo ove il buio regna sovrano e il caos ne rappresenta il fido scudiero, vorrei tentare di definire quel qualcosa di cui parlavo nelle pagine precedenti. Quel qualcosa appunto riveste un non so che di fantastico. Cerchiamo ancora di più di dare una definizione lessicale del termine. Fantastico è tutto ciò che è in rapporto con la fantasia, cioè con quella facoltà della mente capace di creare immagini sensibili: ma fantastico viene anche usato per descrivere qualcosa di meraviglioso ed in questo senso esprime sorpresa, ammirazione; lo stesso termine può essere usato poi come sinonimo di formidabile, che esce fuori dalla normalità, sensazionale addirittura. Nelle pagine che seguono useremo questo termine per cercare di afferrare qualcosa di incerto, bizzarro, capriccioso, indefinibile: e proporrei di forzare il fantastico fino ai suoi connotati più estremi, ci troviamo cioè di fronte al mondo del mistero. Il fantastico confina con l’ambiguo, con l’occulto. Nella lingua tedesca l’aggettivo che più si avvicina a questa definizione è das unheimlich. In Italia è stato tradotto con il termine 1Perturbante, di qualcosa cioè che appartiene alla sfera del pauroso, che genera cioè angoscia, orrore: può certamente essere tradotto come inquieto, lugubre, sinistro, sospetto. La parola tedesca, come ci fa giustamente notare Freud, è l’antitesi di heimlich cioè casa o patria. Heimlich è quindi sinonimo di qualcosa che ci è familiare che appartiene insomma ad un mondo ordinato e sicuramente protettivo. In arabo e in ebraico il termine heimlich coincide con l’orrendo, il demoniaco e addirittura tra le molteplici sfumature del suo significato ne mostra alcune che coincidono con l’esatto contrario. Sempre Freud ci ricorda che fare qualcosa di heimlich significa fare qualcosa alle spalle di qualcuno. Vediamo dunque che più ci sforziamo a definire il fantastico più ne allarghiamo le interpretazioni. Forse un tentativo che potremo fare è cercare di inserire il fantastico in qualcosa di più concreto per cercare di darne una definizione meno aleatoria: vediamone allora il suo significato nella letteratura. 1 Il perturbante, Freud, 1919. Il romanzo fantastico Inteso come genere letterario, il Romanzo Fantastico comprende il Romanzo del Terrore o meglio ancora il romanzo gotico. L’aggettivo gotico ha subìto profonde modificazioni del suo significato nel corso dei secoli. Nell’accezione originale del termine significa ?che ha a che fare con i Goti?. I Goti, lo sappiamo, erano una tribù di barbari dell’Europa del Nord che contribuirono al crollo dell’Impero Romano. Gotico quindi richiama alla mente quel qualcosa di barbaro, teutonico, germanico, di non civilizzato. Se vogliamo, possiamo compararlo a medioevale, ad arcaico e possiamo avvicinarlo a qualcosa che ha legami col primitivo e quindi col selvaggio. Forse potremo definirlo meglio come significato analizzandone i termini contrari. Gotico si contrappone a tutto ciò che è classico che è ordinato, che è strutturato. È l’ombra che si cela dietro la luce, è l’istinto contro la ragione, è il disordine contro la stabilità quotidiana, è l’antico contro il moderno, è in fondo la rivendicazione delle forze negative nei confronti delle forze del bene. È difficile, forse impossibile collocare storicamente il romanzo gotico. Comunemente si intende per genere gotico un gruppo di romanzi scritti tra il 1760 e il 1820 di cui capostipite riconosciuto è The Castle of Otranto di Horace Wolpole (1764) e che annoverano tra le opere meglio riuscite il Dracula di Bram Stoker e il Frankenstein di Mary Shelley. Inseriremo in tale genere anche altri due romanzi definiti come appartenenti al gotico decadente quali il Jekyll di Stevenson e il Dorian Gray di Wilde. Se volessimo darne una collocazione storica, potremmo dire che il romanzo gotico segna a suo modo e in maniera irreversibile la fine della prosa illuministica. Se il Secolo dei Lumi è portavoce di una lingua accessibile a tutti e quindi progressiva in senso storico e sociale è anche vero che nega e svilisce quella parte della realtà individuale che non è regolata dalle leggi del razionale. Il romanzo gotico anche se regolato da uno stile spesso arcaico e disadorno riesce a far vibrare le corde delle nostre paure più recondite, dei nostri occulti legami con l’inconoscibile. Il mondo del fantastico Se in un primo momento, colti di sorpresa, dovessimo definire il mondo del Fantastico, diremmo che è un universo senza leggi ove, cullati dal vento della fantasia, la nostra nave vagherebbe improvvisando le rotte in un viaggio senza meta. Potremmo pensarlo come una affollatissimo Luna Park, fatto di luci colorate e di bui profondi, di odori salmastri di pop-corn e zucchero filato, di aria fresca consumata con gusto sulla grande ruota: un nano fischietta con le mani in tasca, un gigante fa accendere con un sol colpo le lampadine di Mister muscolo, una ragazza troppo in fretta sfiorita con un sorriso ti vende il futuro; un giradischi sfiatato nasconde le note monotone di un fucile impazzito: Mangiafuoco rinnova ogni sera il prodigio del fuoco, 2 per cinque reales ti permette di toccare il ghiaccio; più in disparte, mentre Melquiades nel tunnel della paura, i gridi soffocati si mischiano alle confidenze melense di due fidanzatini inesperti. Nella sala degli specchi puoi incontrare il tuo sosia o vendere la tua ombra. Ma ben presto le luci si spengono, i rumori si placano; il vento giusto della notte ricolora di usuale le cose d’intorno: prova ora a guardare il pozzo dei desideri e la giostra della felicità; le impalcature retrostanti a malapena ne sorreggono i contorni di cartapesta. Si direbbe che la cruda realtà di ogni giorno abbia strappato via di un sol colpo i fumi inebrianti di un universo fantastico. Ma proprio qui, tra queste città di cartapesta e il gracchiare dei nostri piedi che calpestano il brecciolino c’è forse quel Mostro che non è stato riposto, che non è stato rimesso in gabbia. Qualcuno ha detto che l’immaginazione umana non ha creato nulla che non sia vero: e forse il Fantastico vero, fuori dai fenomeni di baraccone, vive e si alimenta del nostro quotidiano più comune. Ecco allora che secondo tale definizione l’universo Fantastico contrasta con il soprannaturale, con l’eccezionale. Il mondo del Fantastico, o meglio ancora la letteratura fantastica affonda le proprie radici nel nostro quotidiano più usuale. 3Ogni essere, ci dice Todorov, presuppone una propria natura, un proprio essere nel mondo che ne determina i limiti e le possibilità: l’anima di ogni individuo è fissata a confini precisi che conosciamo bene o che comunque presumiamo di conoscere bene. La Magia del Fantastico subentra quando ad un tratto ci troviamo dinanzi ad un avvenimento non spiegabile con la ragione: ma la ragione non è offuscata del tutto e mantiene le caratteristiche di cercare di ordinare, di comprendere. Lo spirito critico rimane allora sospeso ma non è ridotto al silenzio: a questo punto ci sono solo due soluzioni da vagliare: o l’avvenimento inspiegabile non è accaduto, è una semplice e pura illusione, e allora le leggi che conosciamo rimangono invariate, oppure il fatto sussiste, ed allora le nostre leggi, i nostri punti cardinali ci sono ignoti; e la realtà, quella maiuscola, è regolata da leggi che ci sfuggono e che non conosciamo: ma quando optiamo per una di queste due soluzioni siamo già fuori dal mondo del fantastico. Il Fantastico, con tutta la magia delle proprie emozioni, è fondato sull’esitazione del lettore ed occupa il lasso di tempo di questa incertezza. Nell’universo fantastico è il sentimento del mistero che prevale, è il fascino dell’insoluto, dell’enigma che avvolge il nostro quotidiano più usuale tingendolo di riflessi incerti e bizzarri. I cultori dei romanzi gotici e polizieschi assaporano così l’ambiguo nettare del mistero e della chiarezza. Quando optiamo però per la chiarezza siamo già fuori dal mondo del fantastico: Sherlock Holmes ci dice che ?quando si è escluso a priori l’impossibile, le ipotesi che restano per quanto improbabili rappresentano la verità?. Nel romanzo poliziesco c’è insomma la scintilla risolutiva nella ragione che risolve l’arcano dipanandolo dalle nebbie del mistero. 2 Il mago zingaro di Cent’anni di solitudine, di García Marquez. 3 La letteratura fantastica, Tzvetan Todorov. Nel romanzo gotico invece il fascino del mistero è mantenuto vivo ed addirittura esaltato non da una ratio illuministica ma da quelle forze impalpabili ma onnipresenti della nostra sfera emotiva più profonda. Ecco allora che il racconto cessa di essere descrittivo e si carica di una propria fisicità: colui che legge è letteralmente investito da un coacervo di reazioni sensibili: i brividi si appropriano del soma, il fiato rimane sospeso, il cuore galoppa all’impazzata, i piedi poggiano ora su di un pavimento mobile e insicuro. Anche il mondo fisico e la natura partecipano a questa rivoluzione dei sensi. Il castello, edificio pomposo e smargiasso di giorno, di notte diventa cornice di rituali infernali ed evocazione di spiriti: la luna, anemica dea delle nostre notti stellate, diventa sanguigna spettatrice di sacrifizi verginali. Il silenzio infinito della notte diventa un’eco lontana che annuncia l’uscita delle creature notturne. Fantasmi, vampiri, mostri, licantropi, sfilano in passerella tra gli angusti pertugi della nostra psiche in rivolta. Ma il piacere che troviamo nel racconto del terrore sta proprio nella nostra capacità di recuperare il reale per perderlo poi nuovamente, nel gioco rassicurante che si stabilisce tra la minacciosa invadenza di un mondo terrificante e la continua ricostruzione di una barriera protettiva: in fondo possiamo chiudere per un momento il libro oppure al cinema pararci la vista con una mano o chiedere rassicurazione stringendo il braccio del vicino. L’orrore del sogno nasce proprio dalla impossibilità di ricostruire questa barriera: cerchiamo di urlare, ma il fiato non esce, e intanto il mostro si avvicina per far scempio delle nostre carni, precipitiamo in un baratro e non ci sono appigli per fermarci. Nel sogno come nel racconto gotico ci troviamo a camminare sulla nostra terra che tuttavia non lo è o perlomeno non solo. Dostoevskij nel suo diario personale così annotava un giorno forse divagando sui nostri stessi temi: ?la realtà non è limitata al quotidiano, ai luoghi comuni poiché essa consiste in gran parte in una parola latente, futura, taciuta finora?. 2. Dracula, o il fantastico interiore Tutto porta a credere che esista un punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso, cessano di essere percepiti come contraddittori. ANDRÉ BRETON La matrice comune a tutta la letteratura fantastica è che i simboli vengono elaborati secondo la logica del sogno. Leggendo un romanzo gotico siamo costretti ad abbandonare le categorie del tempo e dello spazio per addentrarci in un mondo che sentiamo estraneo e insicuro ma che nello stesso tempo percepiamo come nostro. La sensazione è quella di camminare su di una terra che non è nostra eppure lo è: sentiamo gli echi di qualcosa che ci riguarda direttamente e che per troppo tempo abbiamo ignorato come se non esistesse. Sentiamo gli echi della nostra storia collettiva. Questa terra senza sole è abitata da strane figure: residui delle nostre paure infantili ma anche dei nostri desideri più reconditi e inconfessabili. Questa è la terra sommersa del desiderio, che l’umanità ha rifiutato scacciando Lucifero dal paradiso: è il regno dell’immaginario dove tutto si manifesta come contraddizione. Qualcuno o qualcosa ha voluto che questa terra non riceva luce, che non faccia parte del continente visibile. Ma se è vero che la storia dell’umanità può essere descritta come lotta tra il bene e il male forse è anche vero che queste due terre un giorno potranno di nuovo comunicare. In questa terra senza Dio quando la flebile luce del crepuscolo lascia le redini alla regina notte, il conte Dracula lascia il castello in cerca di vergini. Egli è il custode di un tesoro contenente due scrigni. Satana stesso all’alba del mondo ha donato al conte questi segreti da custodire gelosamente. Nella sfinge di Cheope c’è scritto che chi scopre i segreti di Dracula potrà riunire le terre del bene e del male. Proviamo, caro lettore, ad impossessarci del supremo segreto: se il male c’è proviamo a dargli una fisionomia perché, in fondo, il male ci turba più del bene; perché il male in fondo allude ad un orgoglio di vita vissuta: proviamo insieme a conoscere il principe delle tenebre e osiamo il supremo sacrilegio. Il ?Dracula? di Stoker Se fu John Polidori il primo ad inserire la figura del vampiro nel filone letterario è altrettanto vero che il Dracula di Bram Stoker ne rappresenta la consacrazione ufficiale. Stoker scrisse il romanzo nel 1897 forse influenzato da un sogno in cui un cadavere si levava dalla tomba e dai racconti irlandesi di spettri che la madre gli raccontava da bimbo. Lo scrittore frequentò per circa dieci anni la biblioteca del British Museum a Londra per meglio delineare la figura del conte. Lo scenario naturale del romanzo è quello della Transilvania, l’odierna Romania. In questa terra oltre la foresta il diavolo stesso, secondo alcune antiche leggende avrebbe scelto la propria dimora terrena per forgiare i propri aiutanti: l’atmosfera che si respira è quella stagnante di ricordi lontani. Il castello del conte Dracula si erge solitario al di sopra della catena più alta dei Carpazi e domina la vallata sottostante: fa parte del paesaggio e tuttavia lo trascende; le guglie imponenti e le torri merlate si stagliano nel cielo denso di interrogativi irrisolti e sembrano sfidare la benevolenza di Dio. Il castello, simbolo di un topos interiore conserva la presenza sfuggente di un passato ancora presente e con la propria natura regale ricorda al viandante sprovveduto la propria supremazia nobiliare. Gli antenati di Dracula erano stati dotti uomini di stato, sapienti alchimisti e valorosi guerrieri. Attila stesso appartiene alla nobile stirpe. Il protagonista del romanzo è Jonathan Harker, un giovane notaio il quale viene incaricato di vendere al conte Dracula uno stabile situato a Londra. Ed ecco una prima ma solo apparente incongruenza logica del racconto. Che ci va a fare Jonathan in Transilvania, perché affrontare un viaggio così lungo per svolgere delle pratiche facilmente risolvibili per posta? In verità Jonathan non si muove mai da Londra, in verità il viaggio è interno, il movimento è solo psichico. Jonathan alla vigilia del matrimonio con Mina si incontra con il conte Dracula, s’imbatte con il proprio doppio. 4Ben presto il romanzo si carica di interrogativi kafkiani: ma se Joseph K. non riesce a penetrare nel castello Jonathan è addirittura invitato dal conte. ?Benvenuto nella mia 5casa! Entrate liberamente e per vostra volontà?. Jonathan dunque vuole addentrarsi nel proprio castello interno per propria scelta e volontà morale. Ma Dracula lo ammonisce: ?Voglio consigliarvi, mio giovane amico, anzi voglio avvertirvi in tutta serietà che se pensate di lasciare queste stanze [il preconscio. N.d.A.] non riuscirete a dormire in nessuna altra parte del castello. È vetusto contiene molti ricordi e ci sono brutti sogni per coloro che dormono dove non dovrebbero?. Il doppio dunque avverte il protagonista di non avventurarsi nel subconscio perché potrebbe perdersi nel labirinto della propria psiche: il tono che Dracula usa nei confronti del proprio ospite è di ostentata cortesia che maschera però il senso della propria superiorità di lignaggio. Il sentimento che anima Jonathan nei confronti del conte Dracula è di profondo odio e repulsione ma fortemente intriso di fatale ammirazione. È terribile dover ammettere che fra tutte le cose orribili che si celano in questo luogo orribile, il conte è la meno odiosa, che solo da lui posso sperare la salvezza. 4 Joseph K. è il protagonista de Il Castello di Kafka. 5 Dal Dracula di Bram Stoker, 3 citazioni. Vediamo adesso le caratteristiche fisiche di Dracula per meglio scoprire i segreti che la sua figura sottende. Il conte ci viene descritto come un uomo alto, magro, di un’età indefinita in quanto può ringiovanire nutrendosi col sangue delle proprie vittime. È sempre vestito di nero con un mantello che lo avvolge quasi completamente, la carnagione cerea ne risalta i tratti del viso che appaiono fortemente rimarcati: la fronte è alta e sporgente, i capelli sono radi sulla fronte ma folti sul capo. Il viso è sottile, le narici sono arcuate, le sopracciglia fitte arrivano quasi alla radice del naso, le orecchie sono pallide e appuntite, il mento è largo e forte, la bocca fa una piega crudele, le labbra sono rosse e fresche i denti sono appuntiti, le unghie lunghe e affilate si 6stagliano su delle mani lunghe e tozze con le palme pelose. Non è difficile già da questa prima impressione fisica notare i forti connotati sensuali che Dracula evoca. Ma Bram Stoker ci fornisce anche una descrizione psichica del conte. Dracula non si riflette allo specchio; manca cioè di una identità esteriore, di un’immagine reale. L’immaterialità del corpo ne denuncia e risalta la connotazione simbolica sul piano della realtà psichica. Dracula c’è ma non è visibile allo specchio; Dracula c’è ma fatichiamo a riconoscerlo in quanto il nostro stesso viso lo nasconde. Inoltre il conte è privo di ombra. Nell’immaginario collettivo la perdita dell’ombra corrisponde alla cessione 7dell’anima. Peter Schlemihl fa un patto col diavolo e cede la propria ombra in cambio di numerose ricchezze: ma da quel giorno il novello Adamo verrà scacciato dal mondo degli uomini e invano invocherà la restituzione della propria ombra. L’ombra dunque è intimamente connessa al corpo e diremo parafrasando Freud al principio di realtà: chi è dunque questo conte Dracula che osa sfidare le leggi immutabili degli uomini e curiosare nei profondi segreti della natura? Un’altra caratteristica del principe delle tenebre è quella di essere capace di metamorfosi: il conte si può trasformare in cane oppure in lupo. Ora, la nostra sicurezza di adulti sedimenta su un terreno insicuro: sedimenta sul superamento delle nostre paure infantili. Il lupo è un animale simile per conformazione al cane e può a volte infonderci sentimenti di tenerezza ed affabilità; ma il lupo è un animale selvaggio e nella sua doppiezza è sempre pronto a punire le nostre trasgressioni. Dracula inoltre si può trasformare in pipistrello nelle sue escursioni notturne alla ricerca di linfa vitale. E in effetti, in natura esistono dei pipistrelli vampiri. Questi sono animali piccolissimi che nelle notti di luna piena attaccano grossi animali come cavalli e muli; dopo aver procurato una prima ferita, di solito al dorso della vittima designata, ritornano ogni notte per succhiarne il sangue fino all’anemizzazione completa e quindi alla morte. Il pipistrello è un altro animale che attinge direttamente alla fonte della nostra simbologia inconscia: nella sua doppiezza ?mezzo topo e mezzo uccello? emana la calda sensazione di un contatto sessuale sgradevole ma nello stesso tempo coercitivo e languido. Inoltre il pipistrello riposa a testa in giù e nella sua sfortunata ambiguità fisica può sembrare appunto l’immagine di un feto rovesciato. 6 Ci domandavamo se Stoker conoscesse un gioco di ragazzi americani, in cui un ragazzo dice: ?Se uno si masturba gli crescono i peli sulle palme!? e spia se qualcuno degli ascoltatori si guarda le mani con aria colpevole. 7 Storia meravigliosa di Peter Schlemihl di Chamisso. Dracula conserva due scrigni: ?Eros e Thanatos? In questo momento mi sto domandando perché una figura come Dracula abbia valicato i confini della Transilvania per appartenere alla simbologia collettiva. Prendo in mano lo scrigno contenente Eros e ne forzo la serratura. Un profumo acre e denso mi sale alle narici portato da un vento che mi penetra nelle ossa e mi avvolge in una atmosfera di fascino e di paura. Chi è Eros? Nella mitologia greca Eros è il Dio dell’amore: una leggenda vuole Eros nato dalla dea Notte e covato sotto le ali da un pipistrello. Dracula stesso forse ha covato l’uovo per poi custodirlo e nasconderlo ai più. Il tesoro di Dracula appartiene alla sfera degli spiriti eletti: esiste solo per chi ne apprezza l’evanescenza, ne coglie la leggerezza della sostanza; Eros è il profumo della terra dopo un temporale; è la forza distruttrice di un fuoco appena acceso; è lo scrosciare impetuoso di una cascata. Ma cerchiamo adesso di avvicinarci di più ai segreti che il conte sottende. Dracula è il maestro della seduzione: i suoi modi sono gentili, i gesti pacati ma sicuri denotano una superiorità di lignaggio, un’aristocrazia del corpo, la voce è calda e sensuale ma alcuni accenti ne fanno trasparire un dominio senza limiti. Dracula è un essere cinico, sadico è l’eroe antiborghese per eccellenza, che anche nelle peggiori depravazioni conserva sempre una specie di ordine, un’eleganza ammaliante. Nell’immaginario femminile Dracula incarna l’Eros che non chiede; al conte basta uno sguardo languido e accattivante affinché Lucy, Mina e le altre consenzienti vittime scoprano il bianco collo verginale, si inarchino in avanti e si abbandonino al carnefice socchiudendo gli occhi carichi di desiderio morboso: egli allora vi affonda i canini fallici e ne sugge il nettare degli dei avvolgendole col nero mantello. Al morso di Dracula, al sottile dolore iniziale, segue una calda sensazione di piacere che copre pian piano la vittima inebriandola di estasi. Ciò che rimane poi è un sonno senza sogni, un nirvana celestiale, un benessere senza confini. Quante volte al cinema ci siamo coperti il collo quando Bela Lugosi, Christopher Lee o Peter Cushing ripetevano questo sacrifizio rituale! Un’altra caratteristica, ben delineata nel romanzo di Stoker, è che il conte può entrare nella stanza della vittima solo se chiamato da questa. Ecco allora che l’Eros cessa di essere sopraffazione e diviene la tacita intesa di due amanti insaziabili: e la democrazia è nemica dell’amore, il cinico sadismo di Dracula si sposa col dolce masochismo dell’immaginario femminile. Nell’immaginario maschile Dracula evoca desideri inconfessabili di emulazione; non siamo un po’ tutti dei Dracula quando in strada penetriamo una donna con sguardi fallici e voraci o più elegantemente ad un incontro mondano assumiamo la posizione di chi parla poco ma ha dietro tutto un passato da far scoprire? Dracula forse è con noi quando l’aggressività istintuale del maschio si stinge lievemente nei colori più morbidi di una cultura ben digerita. Ma se l’emulazione è la parte affiorante dell’iceberg appena sotto la superficie sentiamo l’eco assordante di una paura ancestrale: la paura di non essere come Dracula: il timore incombente di non essere all’altezza della situazione, di non poter bastare fisicamente e spiritualmente all’universo donna. Sento che il mio immaginario di maschio è come un sassolino che getto nel lago dell’immaginario femminile. Delle onde circolari si sprigionano ma non riusciranno mai a contenerlo: il mio pene psichico si perde nella foresta lussureggiante densa di un’evanescenza troppo carica di sostanza. Penso a Leopardi ?al naufragar m’è dolce in questo mare?. Mi sento addosso la certezza commovente che il problema non è possedere ?la donna? ma suggere il nettare di questa ambiguità così chiara. Ripenso allora a Dracula: forse l’eterno dilemma del mio immaginario sfiora solo indirettamente gli ambigui seni sfamanti di una divinità femminile e si rivolge a lui. Dracula è nella mia simbologia inconscia il maschio ideale che prende senza chiedere ma che chiede quello che prende: e nella mia aspirazione di avvicinarmi all’ideale, mentre quasi lo tocco, Dracula si trasforma in totem: diviene quel padre punitivo che sottomette chi voleva prenderne il posto: una vena di ambiguo servilismo mi sale dalle viscere; mi ritrovo avvinghiato ai piedi di questo mostro divino, una calda sensazione di amore represso si scioglie nel corpo: la voglia di distruggere e conservare questo idolo coabitano in me in un equilibrio che sembra eterno; con gesto pacato e deciso scopro il mio collo e finalmente mi lascio mordere senza più difese. Al sottile dolore del morso, segue una celestiale visione: Eva e Beatrice mi carezzano il corpo adagiato sulle loro ginocchia, si guardano con un furtivo gesto d’intesa, si tengono per mano; un pianto liberatorio sfuma ormai i contorni delle cose e ci unisce in una atmosfera di amore e di pace che sembra eterna. Rimetto a posto lo scrigno contenente Eros; la sensazione che ho è di aver penetrato a fondo la superficialità delle cose; penso che Dracula mi abbia svelato solo una parte di sé: come un pagliaccio del circo, che con un sorriso e la faccia pitturata riesce a nascondere a malapena una lacrima amara al pubblico disattento. L’Eros di Dracula in fondo è carico di una fisicità irreale: il conte non possiede un corpo né ombra, né polso, né respiro, il cuore non palpita all’antico richiamo dei sensi. Dracula è l’eterno Narciso incapace d’amore; è il capo carismatico che suscita ammirazione negli adepti ma mai un gesto spontaneo di affetto e di umana partecipazione. Prendo in mano il secondo scrigno, lo sento pesante e freddo, una smisurata certezza di solitudine cosmica si impossessa dei miei circuiti neuronali; i miei gesti sono tuttavia calibrati, procedo a scatti, gli occhi sono asciutti, le mani non tremano quando sollevano il coperchio cigolante dello scrigno. Il sole dapprima alto nel cielo, prima di cadere nel vuoto emana un’ultima lingua di luce diafana. Dallo scrigno, un vento che profuma di nulla mi alita addosso la sua gelida indifferenza. La regina della notte è lì china sulla sua falce affilata e mi sorride sfoderando i suoi aguzzi canini. Ad un tratto tutto m’è chiaro; la figura di Dracula col suo abito edulcorato dall’Eros sottende la morte. Il vampiro sotto il suo mantello nasconde l’amplesso della morte con una donna procace. Dracula è un nosferatu, un non morto, che consuma i propri lugubri amplessi in un limbo biologico sospeso tra la vita e la morte. Stoker ha vomitato sul mondo un essere che scavalca la morte negandola: con la chiarezza di questa percezione sento che Dracula ora non mi appartiene più e lo lascio nei labirinti del suo castello mentre rincorre le vergini per sfuggire alla morte. 3. Lo schock esistenziale Possiamo fischiettare al buio quanto vogliamo per darci coraggio, ma l’annichilazione totale è la fine di ogni esistenza umana, anche la più splendida. PASCAL In questo capitolo vorrei prendere in considerazione la tesi principale di un libro del 8mio analista Luigi De Marchi nonché mio insegnante dell’I.P.U.E.). Si tratta di Scimmietta ti amo, un testo che a mio avviso chiarisce anche se indirettamente alcuni punti del nostro discorso sull’universo fantastico. De Marchi sostiene che quando la scimmia umana, agli albori della civiltà, ha preso coscienza della finitezza della propria esistenza ha subìto un profondo shock esistenziale. A questa coscienza ineluttabile della propria morte, a questo trauma primario, dobbiamo la nascita dell’angoscia di morte. La povera scimmietta constatando sulla propria pelle lo squallore del laboratorio cosmico ove era stata gettata senza motivo apparente non poté fare a meno di sviluppare delle formazioni reattive, dei meccanismi di difesa. Sussegue così, con meccanismo a catena, la rimozione dell’angoscia di morte. L’essenza stessa della rimozione rappresenta il rifiuto della scimmietta di riconoscere la realtà della propria natura umana. Dal tentativo di esorcizzare l’angoscia di morte nascono i miti millenaristici di onnipotenza e di felicità futura che fanno parte della contraddizione vitale della specie umana. A questo riguardo De Marchi sottolinea come anche uno spirito attento e critico come Freud sia caduto nella rete di rimozione non riconoscendo l’angoscia di morte come movens primario dell’animale uomo. Freud, rimuovendo la propria naturale paura nei confronti dell’angoscia di morte, la trasforma in istinto di morte un desiderio cioè di ritorno all’inorganico che è proprio della materia vivente. Nella mia attività di medico mi sono imbattuto spesso in pazienti che manifestano questa profonda paura della morte e non vedo davvero il motivo perché debba essere considerata come angoscia di copertura. Ma cerchiamo adesso di identificare quali sono i miti millenaristici che rappresentano il manufatto dell’angoscia di morte. De Marchi considera tali ad esempio i grandi totalitarismi storici di destra e di sinistra 8 I.P.U.E. sta per ?Istituto di Psicologia Umanistica Esistenziale? Otto Rank, scuola di formazione in psicoterapia fondata dal Prof. Luigi De Marchi nel 1987. nonché la fede religiosa con quella carica di infantile illusione di salvezza: ?Sotto il 9Sole della Morte nascono Imperi e Chiese?. Ed io aggiungerei come mito del nostro tempo quello promulgato da alcune frange dei nostri ambientalisti. Accanto ad un interpretazione lucida della realtà secondo cui non dobbiamo distruggere il nostro ecosistema e quindi dobbiamo adeguarci a certe forme di rispetto del patrimonio naturale se vogliamo continuare a vivere, si stanno sviluppando a mio avviso in Italia ma anche nel resto dell’Europa delle forme di ecologismo reazionario. Questo ennesimo mito millenaristico interpreta l’infelicità dell’uomo solo come dovuta alla degradazione dell’ambiente in cui vive e auspica un ritorno alla natura come condizione necessaria e di per sé sufficiente alla felicità umana: tutto ciò oltre che falso è anche profondamente dannoso sia da un punto di vista politico-sociale che psicologico. La scimmia umana ha conquistato la propria condizione di essere nel mondo proprio rompendo i legami incestuosi con la natura. Adamo ed Eva mangiano il frutto della conoscenza e da quel momento rompono il cordone ombelicale che li lega al giardino dell’Eden e conquistano la propria coscienza di creature umane. Il mito ecologista, con le sue promesse di felicità, sottende ancora una volta l’angoscia di morte che primariamente lo anima. A questo punto vorrei fare riferimento ad uno dei pochi pensatori che non sono caduti nella trappola di rimozione della morte. Voglio accennare a Giacomo Leopardi, ad un eroe ribelle e solitario che in nome di un umanesimo materialistico ha collocato l’uomo nella sua giusta posizione esistenziale: quella di un essere pensante che malgrado le profonde sofferenze e privazioni elabora sentimenti profondi di amore e solidarietà umana. Leopardi è nel panorama della nostra cultura l’interprete lucido di una realtà biologica. È la Natura Matrigna la vera responsabile di ogni infelicità umana; è la condizione stessa dell’uomo in quanto mortale che distrugge inesorabilmente tutte le illusioni di felicità umana. Nella maggioranza delle nostre scuole si insegna ancora che Leopardi passa, nella elaborazione del suo sistema filosofico in varie fasi di pessimismo. Ed allora abbiamo il pessimismo individuale della prima fase, collegato cioè al complesso di inferiorità fisica del poeta. Poi c’è il pessimismo storico in cui la concezione nichilistica si allarga al momento politico-sociale e poi, bestialità ultima, ci sarebbe il pessimismo cosmico che negherebbe la vera condizione esistenziale dell’uomo come essere felice. Leopardi ha sempre cercato di difendersi da questa etichetta infamante: ?So che malato o sano calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogni inganno puerile e ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, di mirare intrepidamente il deserto della vita di non dissimularmi nessuna parte dell’infelicità umana e di accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa ma vera?. E ancora: ?provino i critici a distruggere le mie tesi 10anziché dare colpa alla mia gobba?. Alla scoperta dell’ineluttabilità della morte, a questa verità così semplice e sconsolatamente vera, Leopardi non reagisce con toni di depressione e di rinuncia ma 9 La caduta, Albert Camus. 10 Leopardi, Zibaldone. innalza il proprio canto virile di amore e di comprensione nei confronti del genere umano. E nella Ginestra, il testamento poetico e filosofico scritto nel 1836, poco prima di morire, non c’è proprio niente di pessimismo, ma solo il profondo affetto di un uomo che osservando l’indifferenza della natura, nei confronti dei propri simili, sembra quasi voler difenderne la fragilità ma anche la forza che sotto li anima. E ancora mi vorrei permettere poche parole nei confronti di quei critici e insegnanti di lettere nonché sociologi di dubbia cultura che hanno liquidato Leopardi con etichetta di pessimista: vogliano un attimo guardare come hanno risolto, rimuovendoli, i loro conti con l’angoscia di morte. La tesi del viaggio Mi rendo conto, rileggendo queste pagine, che a questo punto il lettore potrebbe riguardare la copertina del libro credendo di aver sbagliato testo: che cosa c’entrano Leopardi e De Marchi con l’universo fantastico? In verità i punti di collegamento sono molti: e la tesi principale di questo libro, seppure ne ha una, vorrebbe dimostrare che tutta la letteratura gotico-fantastica ha in comune il tentativo di razionalizzare la morte. L’incapacità di accettare la morte come il fine ultimo del ciclo vitale e quindi il dissolversi del corpo genera un’immagine che sopravvive alla morte stessa: il mostro per l’appunto. Questa figura è la materializzazione di tutto ciò che non può essere razionalizzato completamente, come un pallone, che più spingiamo in fondo all’acqua e più riemerge a galla con forza. In ogni società l’individuo rimuove la consapevolezza di quelle contraddizioni e sentimenti che sono incompatibili con i modelli di pensiero in cui vive. La nostra società, con i suoi miti di benessere e stabilità sociale, ha rimosso la morte e questo spiega paradossalmente l’interesse vivo e crescente per la letteratura e il cinema dell’orrore. In fondo il mostro parla di noi, con la sua affascinante bruttezza ci illumina ciò che non vogliamo vedere, ci parla del desiderio che non muore mai e della mostruosità del corpo che deve avere una fine. Ma non anticipiamo i tempi e continuiamo il nostro ?viaggio al centro delle tenebre?. 4. Il Frankenstein, ovvero il Prometeo moderno: ovvero il presagio di Villa Diodati Chiuso entro la mia creta, t’ho forse chiesto io, Fattore, di diventare uomo? T’ho forse chiesto io di suscitarmi dalle tenebre? JOHN MILTON, Il Paradiso Perduto La nascita Fu in una cupa notte di novembre che Victor Frankenstein vide il coronamento delle proprie fatiche; con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolse attorno a sé gli strumenti atti ad infondere la scintilla della vita nell’essere inanimato che gli giaceva ai piedi. Era quasi l’una del mattino, quando, alla luce che stava per spegnersi, vide aprirsi i foschi occhi della propria creatura: l’essere respirò a fatica; e poi in moto convulso 11agitò le membra! E con queste poche righe, scarne, disadorne, si struttura e nasce una creatura dotata di un’eccezionale forza simbolica, eco di una presenza antica ma comunque attuale: così viene alla luce il Frankenstein di Mary Shelley. L’idea di fondo per il romanzo viene lanciata da Lord Byron. Nel giugno del 1816 Mary e il suo futuro sposo il poeta Shelley, sono ospiti di Byron a Villa Diodati sul lago di Ginevra; li accompagna Claire, l’inseparabile sorellastra di Mary. Alla villa c’è anche Polidori, medico e biografo nonché amante dello stesso Byron. In verità Byron è in esilio forzato, accusato di dissolutezza morale ed incesto nei confronti della sorella Augusta. Mary, fuggita da casa tre anni prima, a soli sedici anni, è figlia del romanziere e filosofo comunista William Godwin e della femminista Mary Wollstonecraft autrice di un famoso libro dal titolo Rivendicazione dei diritti delle donne. La madre morirà di parto mettendo al mondo Mary. La bambina verrà accudita dalla sorella Fanny frutto di un primo amore della suffragetta Mary. Fanny si ucciderà quattro mesi più tardi dalla famosa notte di Villa Diodati: la famiglia non vorrà riconoscerne il cadavere e verrà sepolta in una fossa comune: si dirà dapprima che Fanny è partita per l’Irlanda e poi che si è uccisa perché innamorata di Shelley e gelosa di Mary. Mary rimarrà però sempre legata a questa sorella-madre e ne adombrerà il carattere nel suo libro nei personaggi di Justine e di Elisabeth. 11 Citazione dal Frankenstein di Mary Shelley; lo stesso per le altre citazioni. All’epoca di Villa Diodati Mary aspetta un figlio da Shelley ma non è ancora sposata: alle sue spalle ci sono ripetuti aborti spontanei e un figlio William che morirà all’età di 3 anni nel 1819. Un mese dopo la morte di Fanny viene trovato in Hyde Park a Londra il corpo di un’altra suicida; è Harriet la prima moglie di Shelley. Percey Bysshe Shelley verrà giudicato, per immoralità e ateismo, indegno di tenere i propri figli con sé: morirà annegato a largo di La Spezia nel 1822 a soli 30 anni. A Villa Diodati c’è anche Claire sorellastra di Mary frutto del primo matrimonio di William. Claire è incinta di una figlia, presunta di Byron, Allegra, che morirà all’età di sei anni: Byron non riconoscerà mai questa figlia anche perché Claire vive in regime di libertà sessuale con la sorella e col poeta Shelley e forse il padre potrebbe essere quest’ultimo. Nel 1821 Polidori di suiciderà a Londra ingerendo acido muriatico e nel 1824 Byron morirà esule a Missolungi in Grecia. Ma ritorniamo ancora a quella fatidica notte di Villa Diodati e vediamo più da vicino che cosa accadde. Era una cupa notte di giugno quando i cinque si riunirono attorno al camino per leggere e ascoltare alcune storie di fantasmi. La grande sala della Villa era immersa nella penombra: le fiammelle che si alzavano dai falò erano come lingue di amanti ormai esausti, troppo stanche per tingere di vitalità quell’ambiente ormai saturo di ansia inespressa. La pioggia batteva virilmente sui vetri e smorzava a momenti quell’atmosfera melensa. I tuoni e i lampi a sprazzi ferivano quei volti esangui, pallidi, rapiti dall’inconoscibile. Mary guardava Shelley, lo amava senza possederlo, né forse possedeva il figlio di lui che si muoveva dentro il proprio ventre, sensazione di ripetitività, di un paradiso ormai irrimediabilmente perduto. Mary si sentiva gelosa di Claire ma questo sentimento si mescolava con la propria vanità di darsi a Byron. Shelley leggeva la storia e di tanto in tanto sorseggiava l’oppio liquido, il laudano, che rendeva ancora più belli i lineamenti marcati ma inespressi dell’amico Byron. Claire sentiva la voce di Shelley carezzarle i capelli, si era accovacciata ai suoi piedi ma sentiva sul collo l’alito gelido della sorella. Polidori sentiva i morsi della propria impotenza, della propria omosessualità senza speranza, e la nausea gli saliva alle narici guardando il viso marmoreo di Claire: gli sembrava indistruttibile; monumento eterno di una divinità femminile. Byron si era distaccato dal gruppo, si muoveva sicuro, malgrado il piede equino, timoniere esperto della nave dei sensi. ?Perché non inventiamo ognuno – disse – una storia di fantasmi?? E l’idea fu subito condivisa. Quella sera nacquero il Vampiro di Polidori, il Mazeppa di Byron e il più orrendo e macabro mostro di tutti i tempi il Frankenstein di Mary Shelley. Otto anni dopo Villa Diodati solo Mary e Claire rimangono in vita. Quella sera rimarrà impressa nelle loro menti come presagio delle morti future ma anche come germoglio e pianta di un seme gettato quella sera. La struttura del Frankenstein Il Frankenstein viene pubblicato anonimo nel 1818. Già cinque anni dopo Mary Shelley assiste alla prima riduzione teatrale. I tre atti vengono variati di sera in sera tanto che la storia subisce continui mutamenti ed è articolata con finali diversi. Ed è sicuramente da queste riduzioni teatrali che arriviamo al Frankenstein cinematografico così completamente diverso dal testo e mutilato nella sua natura più profonda ed umana. Qualcuno ha parlato del romanzo come di un congegno di scatole cinesi. Ed infatti nel suo interno si articolano e si esauriscono tre storie diverse interamente compiute e definite nei drammi personali; c’è la storia di Robert Walton, moderno Ulisse, che lascia la sua Itaca, l’Inghilterra per una spedizione al Polo Nord; scrivendo alla sorella Margherita Saville le dice: ?forse là potrò scoprire il meraviglioso potere che attira l’ago magnetico? e ancora ?forse potrò mettere piede su di una terra che non conosce ancora impronta umana?). Al polo nord, Walton incontra Victor Frankenstein, che ha lasciato il mondo degli uomini per rincorrere e uccidere l’essere da lui stesso creato. La terza storia è quella del mostro che, non riconosciuto dal proprio creatore, erra vagabondo nelle bianche e solitarie distese del Polo. All’interno di queste tre storie si intersecano e si alimentano tra loro una serie di simbologie e quindi di livelli interpretativi che formano il tessuto sensitivo ed emozionale del romanzo. Chi legge il testo per la prima volta viene letteralmente investito da questo dramma del corpo, da questa tempesta emozionale. Bisogna rileggere il Frankenstein per fare attenzione alla struttura in realtà geometrica e preordinata del testo. In questa sede vorrei tentare una descrizione del Frankenstein articolandola su tre livelli interpretativi a mio avviso fondamentali; chiedendo scusa in anticipo ai lettori per questo mio artifizio da anatomo-patologo. Primo livello. L’onnipotenza della ?ratio? L’elemento simbolico più appariscente, che balza subito agli occhi per chi legge il Frankenstein per la prima volta è senz’altro la creazione del mostro. Victor Frankenstein è uno scienziato che da giovane si è dedicato agli studi sulla pietra filosofale e alla ricerca dell’elisir di lunga vita ed ora, dopo aver passato lunghe notti nei cimiteri a studiare i processi di decomposizione della materia organica, ne carpisce l’intimo segreto. Frankenstein, mettendo insieme le varie parti anatomiche dei cadaveri decurtati dagli ossari, crea la vita: la Shelley non ci spiega come egli riesca nel proprio intento: sappiamo solo che era una cupa notte di novembre e che la luna era spettatrice delle fatiche notturne. Ancora una volta la creazione è notturna, il mistero della vita anche se svelato rimane in qualche modo occulto, con la creazione dell’essere vita e morte non sono più contrastanti ma divengono elementi della stessa natura. Frankenstein, scoprendo le leggi che regolano la conversione della materia inorganica in vita assurge, al ruolo di Dio, diventa il moderno Prometeo, come il sottotitolo del romanzo ci rende manifesto. Prometeo è un personaggio antichissimo della mitologia greca: addirittura anteriore a Zeus e agli dèi olimpici. Prometeo aiuta Zeus contro Crono e i Titani e poi ruba la scintilla del fuoco dall’Olimpo per donarla agli uomini. Questo fatto scatena l’ira di Zeus, il quale lo fa incatenare da Efesto ad una rupe del Caucaso. Il mito narra che un’aquila divora a colpi di becco il fegato immortale di Prometeo che ricresce di notte nella stessa misura in cui viene divorato di giorno. La storia di Prometeo ripropone l’eterna lotta dell’uomo per la propria autodeterminazione. Il fuoco simbolo per eccellenza della forza della natura, è lo strumento che permette di modificare la materia, di cangiarne la consistenza e in ultima analisi di infonderne la vita. Frankenstein come Prometeo ruba dal cielo la scintilla del fulmine e dona agli uomini il segreto della vita e quindi l’immortalità. Vediamo adesso più da vicino i contenuti di questa creazione. La nascita del mostro racchiude in sé due aspetti dicotomici fondamentali. Il primo è quello tipicamente razionale scientifico. Frankenstein mette insieme la vita da un assemblaggio di pezzi; la sua è un’opera di chi procede con metodo scientifico. Si ricordino le cognizioni scientifiche del tempo; nel 1803 Giovanni Aldini a Londra sperimenta l’elettroshock su di un criminale impiccato. Galvani con gli elettrodi fa contrarre i muscoli delle rane. Ricordiamo inoltre gli esperimenti del nonno di Darwin, Erasmus, per animare la materia inorganica e i tentativi in Francia di creare automi artificiali che spieghino visivamente la circolazione del sangue. Analizzato da questo punto di vista la creazione del mostro si inserisce in un’ottica tipicamente materiale, rientra nella categoria di ciò che è fattibile con un processo logico induttivo deduttivo; è in fondo quello che 100 anni dopo i nostri scienziati con il genoma project, cioè con la decifrazione e la ricostruzione del DNA, stanno tentando di fare. Il secondo aspetto è quello che definirei emozionale, collegato cioè alle sensazioni più profonde che l’uomo Frankenstein, non lo scienziato, prova dinanzi alla propria creatura. Così Frankenstein descrive le proprie emozioni di fronte alla ripugnante creatura: ?Le sue membra erano proporzionate ed avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di un nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati con la sua pelle grinzosa e con le sue labbra nere e diritte?; e ancora: ?Il mio cuore era pieno di orrore e di disgusto indicibili, una mummia ritornata a vita non avrebbe potuto essere più spaventosa?. Appena Frankenstein si rende conto della mostruosità della propria scoperta ne prova ribrezzo e fugge inorridito. Lo scienziato che si era illuso di creare la vita e quindi di trascendere la finitezza della natura umana ha creato nuovamente morte. La creazione senza amore, il puro atto materiale genera solamente il rifiuto dei sensi e l’onnipotenza della ragione non riesce più a celare il proprio motore propulsivo la rimozione cioè dell’angoscia di morte. Secondo livello. Fenomenologia del ?doppio? Il secondo livello interpretativo che ci permette di andare più a fondo nell’analisi del romanzo è rappresentato dal fenomeno del doppio. Secondo questa modalità il romanzo può essere rappresentato come un prisma ottico: un raggio di luce penetrando all’interno si scinde in tanti colori e quel la luce si sgretola in una miriade di riflessi ove non è più possibile ridare corpo al raggio iniziale. Allo stesso modo la tematica del doppio penetrando nel cuore del Frankenstein si scinde in tanti doppi e questi in una miriade di simboli duali ove non è più possibile ridare corpo al doppio iniziale. Victor Frankenstein è un uomo che rinuncia alle agiatezze di una pacata vita borghese perché sente che, dentro sé, qualcosa manca. È questo sentimento di mancanza la forza propulsiva che lo porta in laboratorio a dare vita al mostro. Lo scienziato non ci spiega come nasce il mostro, né potrebbe farlo, poiché l’essere non nasce in quella cupa notte di novembre ma viene solo scoperto. Frankenstein scopre cioè quella notte un altro se stesso così diverso dall’io conosciuto ma così intimamente collegato al proprio esistere. ?Immaginai l’essere che avevo gettato fra gli uomini e dotato della volontà e del potere di mandare ad effetto azioni spaventevoli... come al mio vampiro, il mio spettro uscito dalla tomba e destinato a distruggere tutto ciò che mi era caro!?. Con la creazione del mostro, o meglio con l’artifizio del doppio, Victor può riabitare quei luoghi che la coscienza morale gli aveva negato: può camminare nuovamente nel giardino del proprio mondo interiore ma il dramma è troppo forte; risvegliatosi dopo il parto si accorge che la creatura lo guarda con occhi carichi di domande; ma Frankenstein non può sostenere quello sguardo e fugge inorridito. Ma a questo punto diremmo parafrasando García Lorca che ?il terribile è già accaduto?. Quel lembo di terra che teneva uniti i due mondi si è scisso oramai come un cordone ombelicale che non aveva più ragione di esistere. Frankenstein ormai adulto non può riconoscere il proprio bambino che protende le braccia e chiede aiuto: e da questo momento questo essere senza patria terrorizzerà intere generazioni col suo forte connotato simbolico. La cinematografia mondiale lo rappresenterà come un essere informe e deforme con la testa più grande rispetto al corpo (come un feto appunto). Con l’invenzione del doppio Frankenstein tutela la propria parte adulta ed espelle fuori da sé il proprio essere bambino. Ed è proprio questa la profonda sorpresa di chi legge il Frankenstein per la prima volta: invece di trovarsi di fronte il mostro cinematografico con la fronte spaziosa e l’enorme cicatrice sul volto il lettore si ritrova a fare i conti con un essere che, barcollando e balbettando, cerca una propria collocazione nel mondo. The Being, come la Shelley lo chiama, è un organismo che ha fame, che ha freddo, che chiede aiuto e che vuol capire il mondo degli uomini. Il mostro lo potremo paragonare al buon selvaggio rousseauiano; è cioè una creatura innocente, una tabula rasa dove l’ambiente ne scrive la storia. Rifiutato dal proprio creatore, il mostro è costretto a girovagare per il mondo senza meta: si ciba di bacche, di radici, si ripara dal freddo dormendo nelle caverne. Ben presto però apprende i misteri della natura, manipola il fuoco, impara i ritmi del giorno e della notte, l’incalzare delle stagioni: e in questo paradiso senza Dio lo sciagurato alterna momenti di disperazione profonda e di sconsolata solitudine a momenti di osservazione e fusione con la natura stessa; si incanta a guardare l’elegante volo degli uccelli, si meraviglia di un’ape che svolazza su di un fiore, si commuove a camminare su di un prato bagnato quando l’alba ricolora il mondo di vita. L’aspetto orripilante del mostro racchiude un animo sensibile, attento ai moti dell’anima, e in contatto con l’humus, con la terra, con ciò che di più naturale esiste. Il mostro ha una spiccata inclinazione per le bellezze della natura; ben presto inoltre è affascinato dal mondo degli uomini, impara a leggere e sceglie opere di squisita eleganza estetica: legge le Vite di Plutarco, si accende di passione per Il Paradiso perduto di Milton e piange quando il giovane Werther si suicida per amore. Finalmente arrivato il momento di presentarsi al mondo, lo sventurato verrà prima scacciato a randellate e a sassate da una famiglia di pastori e poi verrà addirittura ferito ad una spalla da un colpo di pistola dopo aver salvato un bimbo che stava per annegare. Ancora una volta rifiutato dal mondo e frustrato nelle proprie aspirazioni di integrazione il mostro giurerà guerra agli uomini: rintraccerà Frankenstein e lo priverà degli affetti più cari; la prima vittima sarà Guglielmo il fratellino più piccolo dello scienziato e poi sarà la volta di Enrico Clerval l’amico più caro, e per ultima Elisabetta la sposa di Victor addirittura sul talamo nuziale. Il mostro verrà inseguito da Frankenstein fino al Polo ove scomparirà tra i ghiacci insieme al suo creatore. La dicotomia del doppio racchiusa nell’immagine adulto-bambino con il procedere del romanzo prende i toni sempre più netti fino a scivolare e a trasformarsi in un’altra tematica del doppio quella appunto riferita alla polarità uomo-donna. Victor Frankenstein è uno scienziato che usa la ratio per rendere l’uomo immortale: è dunque l’archetipo della modalità maschile di porsi nel mondo è il simbolo del potere sociale dell’uomo. Il mostro è invece il bambino che si muove nel mondo affidato solo alla propria sensibilità e naturalità; è in fondo il simbolo di un mondo femminile. Ed è questo infatti il romanzo per eccellenza dell’immaginario femminile; il mostro si muove e agisce in una cornice naturale fatta di paesaggi lunari, di ghiacciai immensi, di crepuscoli nitidi. Tutta la natura partecipa al femminile: è questa madre terra che dona infatti i suoi frutti al mostro, lo riscalda nei suoi anfratti e porrà fine ai suoi affanni terreni richiamandolo nel proprio ventre. Non possiamo certo parlare del mostro come di una rappresentazione dell’inconscio, perlomeno non di quello freudiano, in quanto mancano i termini di un innatismo istintuale: ricordiamo che il mostro nasce senza pulsioni, è in fondo una tabula rasa. Ma certo non sbaglieremo se diremo che il mostro è animato da un immaginario femminile e che nella sua affascinante bruttezza ritroviamo l’eco di un Eros irrisolto. La creatura creata da Frankenstein è in fondo il mondo interiore di Mary Shelley: è il mondo dove albergano senza convivere i bisogni più naturali di una donna e le realtà materiali che negano questi bisogni impedendone la realizzazione. Il mostro in fondo è la materializzazione non tanto di un inconscio al femminile ma di una realtà interna che può venire fuori solo se razionalizzata. Ecco allora che visto sotto questo profilo il tema del doppio diventa l’immagine antitetica e scissa della personalità di Mary Shelley. Mary è al tempo stesso Victor Frankenstein e il mostro: è Victor Frankenstein perché vuole creare un modo diverso di essere donna; Mary ha scelto di autodeterminarsi in un mondo ove questa caratteristica è tipicamente maschile: ricordiamo che siamo nel 1817 in piena rivoluzione industriale ma che le donne non hanno ancora diritto di voto. Mary fugge di casa a 16 anni, viene rifiutata dalla propria famiglia d’origine, convive non sposata col poeta Shelley, e predica il libero amore come forma di vita. Mary quindi è anche quel mostro che non può essere accettato da una classe borghese che ha eretto la propria forza vincente sul valore morale della famiglia e sul potere decisionale maschile. Come il mostro Mary paga la colpa di essere intrappolata nella propria apparenza: condannata ad essere vista, nell’eterno gioco delle maschere, e giudicata solo secondo le statiche regole borghesi dell’esteriorità più superficiale. Come il mostro, Mary è condannata a non essere ascoltata, a non essere amata. Chi trascende il gioco delle parti, chi rischia per autodeterminare le proprie potenzialità emotive non ha diritto ad uno status, ad una realtà sociale e affettiva. Ed ecco allora che al mostro non resta altro che una aggressività di difesa, urlo disperato contro le barriere erette per mantenere un ordine strutturato: ma questo urlo soffocato, strozzato, appena accennato, da una donna che ha cercato se stessa, diventa nell’immaginario collettivo la cattiva coscienza di noi tutti: la creatura di Frankenstein diventa allora quell’essere indefinito portatore di morte ma anche di vita e di riscatto personale. Terzo livello. La maternità perturbante Una cosa banale, che balza subito agli occhi è che la fortuna del Frankenstein passa più per le svariate riduzioni cinematografiche che non per le pagine del romanzo. Perché è successo questo? A questa domanda potremmo rispondere in più modi: potremmo argomentare che è più facile far scorrere le immagini di celluloide che le pagine di un libro o che il cinema si rivolge ad una massa mentre il rapporto col testo è individuale e meno comunicativo: ma risolvere tale interrogativo in questi modi è per lo meno riduttivo se non addirittura fuorviante. Mary Shelley ha letteralmente catapultato sul mondo un essere dotato di un’eccezionale carica simbolica, figura evocatrice delle nostre paure più recondite: ma un simbolo che si rispetti vive di vita propria e ben presto sfugge al significato primitivo che lo lega all’autore per librarsi leggero e senza vincoli negli angolini più bui della nostra psiche in rivolta. E così Frankenstein ormai adulto cammina sul prato del nostro immaginario, materializzazione di tutto ciò che è riuscito a metà, ectoplasma dei nostri desideri incompiuti. Forse l’uomo ha solo un’arma nei confronti del mostro ed è un’operazione inversa alla razionalizzazione. Forse dovremmo calarci nel pozzo nero, sguazzare nel fango della nostra psiche con la coscienza che non possiamo distruggere Frankenstein ma incontrarlo e conviverci è la nostra meta agognata. Bisogna bruciarsi le ali per non aver paura di volare. Forse quello che potremmo fare è togliere al mostro quell’effetto perturbante, quella sorta di incertezza intellettuale che ci lega a lui in una morsa che toglie il respiro. Il mostro della Shelley in fondo è stato costruito con più pezzi presi a caso. Forse potremmo tentare di smontarlo per ammirarne l’uniformità anziché avere la presunzione di distruggerlo: caro lettore teniamoci per mano e proviamo a scendere in questo pozzo, le nostre mani sono sudate ma emanano calore e forse la paura non riuscirà a separarle. Vieni, lasciati andare, entriamo nel labirinto ma non portiamo fili di lana né corde per risalire, il difficile non è risalire, il difficile è rimanere. Due cellule si uniscono con la logica dell’assurdo, un nuovo essere da probabilità diventa certezza. Il mistero che l’avvolge è puro come il pianto di un bimbo, è terso come una notte stellata è silenzioso come un mare senza vento. In questa isola che dorme, un uomo e una donna affascinanti dai fumi del loro amore hanno commesso il supremo sacrilegio. Quale sarà la punizione? Le due cellule si riproducono, da due diventano quattro, poi otto, poi sedici, poi un milione, poi non si contano più. Ormai i due amanti sono spettatori impotenti di un dramma che si consuma da solo. Il ventre prominente diventa preludio di sventure, anche il seno si gonfia, come un vulcano che per troppo tempo è stato silente e minaccia di esplodere; gli occhi perdono la malizia ma sono troppo carichi di paura per esprimere la commozione, la sensualità delle forme assume un aspetto fin troppo monotono. La donna avverte dei movimenti dentro di sé, sensazione di felicità incommensurabile e di abisso senza fine; guarda se stessa: è una mamma che si sente ancora donna o una donna che a tratti si sente madre? La risposta dentro le manca. Ad un tratto un’altra domanda sale alla gola, cinge il collo in una morsa che opprime: chi è quell’essere che le cresce dentro incurante del mondo e delle regole? È un angelo biondo, sensazione di tenerezza infinita, o Frankenstein che rinnova il suo parto deforme? I mondi si mischiano come due liquidi non più separati. Eros e Thanatos ballano insieme in questo paradiso senza Dio. L’uomo, in disparte, guarda la donna che non è più sua né sa ormai riconoscerne l’Eva maliziosa; né può Edipo ormai cieco tra le pieghe dell’enorme seno gustare il caldo tepore della grande madre terra. L’essere che gli cresce accanto rinnova ogni volta l’eco di una paternità perturbante. L’uomo si chiede: è mio figlio, spavaldo guerriero delle mie genti, continuatore delle mie battaglie, polvere della mia terra oppure il frutto malsano di un amplesso col diavolo? Un cane ulula lontano, la notte col suo mantello di ghiaccio avvolge quest’universo ormai inerte. Amore, odio, disperazione, speranza, passione e indifferenza suonano insieme le loro note di morte. Ma ben presto i colori dell’alba tingono di dolcezza questo paesaggio che si risveglia. Il vagito di un bimbo rinnova di speranza l’alba del mondo. Frankenstein è solo una scimmietta spaurita, dolce anello di congiunzione con la specie, commovente miracolo dell’universo. L’uomo e la donna si prendono per mano, finalmente il sole brilla alto nel cielo, un bimbo è con loro e li guarda con occhi carichi di domande, finalmente il gelo della notte lascia le membra dei due giovani amanti, non ci sono fantasmi alla luce del giorno. 5. Lo strano caso del Dr. Jekyll e del signor Hyde Il prudente s’arma d’una pistola e chiude a chiave la porta, scordandosi di ben altro spettro che gli è più da presso. EMILY DICKINSON La genesi del romanzo Il racconto, scritto da Robert Louis Stevenson nel 1885, ha come precedente la lettura di Delitto e castigo di Dostoevskij e un racconto, il Markheim, anteriore di un anno al Jekyll. Secondo la moglie Fanny, Stevenson rimase influenzato dalla lettura di un giornale francese dedicato al subconscio e da un articolo di un dentista, il quale s’intossicò con del cloroformio nel compiere esperimenti di anestesia. Il dentista avrebbe gettato in un momento di aggressività del vetriolo in faccia ad una prostituta deturpandola; prontamente arrestato e ritornato in possesso delle proprie facoltà mentali si uccise in carcere. Altre fonti fanno risalire la nascita del romanzo a dei sogni continui e ripetuti, dei veri e propri incubi che ossessionarono Stevenson durante una lunga malattia. Stevenson stesso nel testo Un capitolo sui sogni ammette di aver sognato la scena della finestra in cui Jekyll si trasforma involontariamente; inoltre l’idea della pozione sarebbe secondo l’autore stesso opera dei folletti benevoli che albergano e occupano i meandri notturni della mente: non è poi da escludere un’ipotesi più realistica collegata al fatto che la tisi provocava a Stevenson dolori polmonari molto forti e che questi facesse uso di cocaina per sedarli. Il clima storico del romance è quello di una borghesia puritana e reazionaria di fatto che contrasta con la cultura positivistica: profonda infatti direi quasi conscia l’influenza che il darwinismo e Spencer hanno nella evocazione quasi scimmiesca del mostro Hyde. La storia Il racconto ha inizio con la descrizione dell’avvocato Utterson il quale passeggia con il cugino Enfield in un quartiere di Londra. Enfield fa notare al compagno l’uscio di una porta connesso a parer suo ad una storia quanto meno bizzarra. Erano circa le tre del mattino quando Enfield rincasando s’imbatté in una figura alquanto piccola che arrancava con incedere goffo ma veloce. Questa creatura, arrivata ad un crocevia, si scontrò con una bambina di circa dieci anni e la calpestò senza remore lasciandola piangente sul selciato. Enfield, rimessosi dallo sgomento in cui la scena lo aveva calato, si era gettato subito all’inseguimento di quel tizio e acciuffatolo lo riportò al cospetto della piccola folla che era accorsa alle grida della fanciulla. L’uomo propose di risarcire la bambina in denaro e fu accompagnato appunto dinanzi a quella porta, ne trasse di tasca una chiave, e poco dopo fu di ritorno con dieci sterline in oro e un assegno firmato da un uomo famoso, di cui per discrezione Enfield non voleva svelare il nome al compagno. Enfield aveva pensato spesso a quella storia con la speranza di rintracciare o quanto meno sapere qualcosa di quell’uomo che si presentava con il nome di Edward Hyde. Così ce lo descrive Enfield: Nel suo aspetto c’è qualcosa che non torna, qualcosa di sgradevole, di ignobile addirittura. Non mi è mai capitato d’incontrare una persona che mi abbia comunicato una simile, istintiva ripulsa. Ci deve essere qualcosa di deforme in lui e, anche se non saprei localizzarla, in quella figura s’avverte un’anomalia. È un essere dall’aspetto sconcertante e tuttavia non mi riesce a cogliere nulla in lui fuori dell’ordinario. Nossignore, non mi ci raccapezzo, e non riesco a descriverlo. E non è che mi fallisca la 12memoria, perché anche ora l’ho davanti agli occhi. Quella sera Utterson, fatto ritorno a casa propria, aprì la cassaforte e ne tirò fuori un plico con su scritto ?testamento del Dottor Jekyll?. Nelle clausole, il testamento stabiliva che in caso di decesso di Henry Jekyll tutti i suoi averi sarebbero andati al suo amico e benefattore Edward Hyde che in caso di scomparsa o assenza inspiegabile superiore a tre mesi Hyde sarebbe subentrato in tutto e per tutto al citato Henry Jekyll. Prima della discussione con Enfield, Utterson non aveva preso in seria considerazione il testamento dell’amico Jekyll ma ora voleva sapere di più su questo misterioso Hyde. Cosa c’era che legava uno dei più stimati medici della capitale a questo stolto individuo descrittogli da Enfield? Per rispondere a questo interrogativo Utterson consultò il Dr. Lanyon anch’egli amico di Jekyll, ma questi elusivamente rispose che aveva rotto i ponti col collega a causa di profonde ed insanabili diversità di ordine scientifico. Utterson non sapeva darsi pace e per più notti spiò di nascosto l’uscio della casa di Hyde. Dopo varie notti passate insonni giunse la ricompensa, Utterson incontrò Hyde, ma questi alle prime domande su Jekyll, sgattaiolò in casa eludendo l’incalzare dell’avvocato. Così Utterson lo descrive. Il signor Hyde era apparso cereo e come rattrappito, dava l’impressione della deformità senza alcuna deformazione definitiva; aveva un sorriso repellente; verso di lui, poi, s’era comportato con un miscuglio delinquenziale di neghittosità e di arroganza: la sua voce era suonata rauca, tutta sibili e farfugliamenti ?Dio mi perdoni, incalza Utterson, ma non mi sembra nemmeno un essere umano. Dà l’idea, come dire, di un essere primordiale?. 12 Citazione dal libro Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Sig. Hyde di Stevenson. Ben presto Utterson si accorse che quell’uscio altro non era che la porta posteriore dell’abitazione del Dr. Jekyll il quale abitava nell’altra ala dello stabile che dava in un’altra via. Utterson, più agguerrito che mai, suonò alla porta del Dr. Jekyll: gli rispose Poole il maggiordomo dicendogli che era verosimile che Hyde fosse entrato in laboratorio perché Jekyll stesso gli aveva fornito le chiavi dello stabile posteriore. Il caso volle che poche settimane più tardi Jekyll invitasse Utterson a cena: l’avvocato gli espose le perplessità di un’amicizia così malsicura: Jekyll lo tranquillizzò dicendo che poteva sbarazzarsi di Hyde quando voleva e che non c’era da temere per la sua incolumità non essendo minacciato in alcun modo. Era trascorso circa un anno quando una sera d’ottobre venne ucciso Sir Danvers Carew. Questi ebbe la sventura di incappare di notte con Hyde e di chiedere informazioni riguardo una strada che non conosceva; Hyde brandito un bastone da passeggio, lo scagliò più volte sul corpo dell’anziano passante. Lo stesso Utterson aveva regalato quel bastone anni addietro a Jekyll ed ora riconosciuto il cadavere in obitorio, non tardò molto a ricostruire la storia. Intanto Hyde si era reso introvabile e Jekyll interrogato da Utterson disse che non sarebbe più tornato a Londra. A questo tragico fatto seguirono dei giorni di pace in cui Jekyll sembrava aver ritrovato il buonumore di un tempo; era divenuto nuovamente dedito ad opere di carità e aveva ritrovato la propria fede religiosa. Quest’atmosfera di tranquillità fu interrotta però dalla morte prematura del Dr. Lanyon il quale lasciò ad Utterson un plico da aprire solo in caso di morte o scomparsa di Jekyll. Ancora una volta il caso collegava Jekyll a qualcosa di oscuro e misterioso. Una mattina Utterson e Enfield passarono di nuovo nei pressi della casa di Jekyll e invitarono quest’ultimo ad una passeggiata: Jekyll sembrava felice di accettare l’invito, ma mentre stava per uscire il sorriso gli svanì dalle labbra e una smorfia di terrore e di disperazione gli si disegnò sul volto tanto da far gelare il sangue ai due cugini. Pochi giorni dopo Poole il maggiordomo di Jekyll invitò Utterson a recarsi da Jekyll perché questi era scomparso e nel laboratorio c’era sicuramente Hyde. Utterson sfondato la porta si ritrovò il corpo di Hyde esangue privo di vita ma ancora scosso dagli spasmi dell’agonia; i due cercarono Jekyll nel laboratorio ma di lui non trovarono che due plichi, uno che rimandava alla lettura del materiale di Lanyon e l’altro scritto da Jekyll stesso. L’avvocato prese le lettere, pregò Poole di non farne parola con alcuno e si diresse di corsa a casa per leggere i due memoriali che gli avrebbero finalmente svelato il mistero. Nel leggere il memoriale di Lanyon, Utterson scoprì l’atroce verità: alcuni anni prima Jekyll si era rivolto a Lanyon affinché questi gli portasse delle fiale e della polverina che si trovavano nel laboratorio dello stesso Jekyll. Jekyll si trovava in una casa a Cavendish Square ed era impossibilitato a muoversi. Una volta giunto sul posto Lanyon non trovò Jekyll ma Hyde che preso l’involucro versò il contenuto delle fiale in un bicchiere e vi mise la polvere della cartina. La miscela che aveva da principio colore rossastro divenne effervescente e cominciò a bollire cambiando di colore e assunse un colorito viola. Hyde implorò Lanyon di andarsene ma questi voleva notizie dell’amico Jekyll. Hyde allora si portò il bicchiere alle labbra e trangugiò il contenuto tutto di un fiato. Seguì un grido; cominciò a vacillare, s’aggrappò al tavolo, strabuzzò gli occhi iniettati di sangue e sotto il mio sguardo avvenne la trasformazione Dio mio dinnanzi ai miei occhi c’era Henry Jekyll. Con le mani sudate e il corpo sconquassato fino alle radici Utterson lesse anche il manoscritto di Jekyll. È Jekyll che scrive: è come se un solco più profondo di quanto in genere avvenga nella maggioranza degli uomini, venne a separare in me quei domini del bene e del male in cui si spacca, e di cui si compone ad un tempo, la duplice natura dell’uomo?. E ancora: ?Per quanto così doppio nell’intimo, non ero in alcun modo un ipocrita; i miei due versanti coesistevano in perfetta buona fede; e quanto deponevo ogni ritegno per tuffarmi nell’infamia, ero me stesso né più né meno di quando m’affaticavo alla luce del giorno per incrementare il sapere o il portare sollievo alla sofferenza. Jekyll continua la relazione confessando che dapprima poteva assumere l’antidoto e ritornare allo stato iniziale ma che poi la metamorfosi avveniva anche senza l’ingestione della sostanza. Negli ultimi periodi addirittura doveva assumere la pozione per rimanere Jekyll, e la pozione era terminata. Jekyll dunque travolto dalla macchina che non può più controllare, scrive le ultime righe del testamento e poi si trasforma in Hyde per l’ultima volta. Polarità Jekyll-Hyde Il romanzo, definito da alcuni critici appartenente al genere gotico decadente, si articola con i temi che sono cari alla detective story (basti pensare alla crescente atmosfera di mistero e di poliziesco che si cela nella prima parte del romanzo intorno alla figura di Hyde) e che poi sfociano invece, con un brusco giro di boa, nell’elaborazione della logica di un sogno. È sotto questa luce infatti che il capolavoro di Stevenson assume, a mio avviso, una connotazione più forte che ne permette una maggiore esplicazione interpretativa. Le scene chiave del romanzo avvengono di notte, ma il buio non serve allo scrittore per mischiare le carte in tavola: gli elementi che compongono la narrazione invece ne risultano fortemente rimarcati: è notte quando avviene il delitto Carew ma nonostante la fitta nebbia il vicolo risulta rischiarato dalla luce brillante della luna piena e come se non bastasse a quell’ora l’aria è tersa. Quello che colpisce nella narrazione è che le scene balzano subito agli occhi e vengono subito fatte proprie da chi legge e trasformate in immagini; è come se l’elaborazione razionale della lettura venisse saltata a vantaggio degli elementi inconsci che ne formano l’immagine visiva e ricca di contenuti simbolici. L’impronta emotiva che lascia il romanzo una volta completata la lettura, è collegata a qualcosa di irrisolto: è come se l’evocazione del fantastico, del mistero, resti ancora viva e operante negli angoli più bui della nostra mente e la lasci semisospesa in un guazzabuglio delirante in bilico quasi, tra la possibilità di recuperare il reale e il baratro senza fine. Non basta la morte del mostro per calmare le acque, per placare i fantasmi evocati. Ma tralasciando ora la connotazione tipicamente esperenziale che avvolge ogni forma di arte nei veli del mistero vorrei ora tentare una rielaborazione sul piano strettamente interpretativo e quindi psicanalitico dell’opera stevensoniana. Proviamo a ripetere dentro di noi il nome Henry. In lingua inglese Henry si pronuncia con la lettera H aspirata che ne connota un qualcosa di aristocratico, di regale ma al tempo stesso carico di ambiguità celate. Jekyll è un uomo sulla cinquantina, robusto, ben fatto, il volto aperto, fresco, ma con un’aria un tantino maliziosa. Le sue maniere sono affabili, gentili; dotato di una natura composita Jekyll incarna la figura di una borghesia in ascesa. La traduzione della parola ci rende subito manifesta la sua origine. Hyde vuol dire nascosto, celato, è sinonimo di occulto e forse di rimosso. Hyde ha una corporatura piccola, ma la fragilità della costituzione contrasta con la vigoria muscolare. Il suo aspetto suscita disgusto, avversione, deformità, senza però dare possibilità di una localizzazione anatomica di tale sensazione. La voce è rauca, tutta sibili e farfugliamenti, la risata è selvaggia, il passo è felpato, la mano è villosa e nocchiuta. Gli aggettivi che Stevenson usa ci danno subito l’immagine che Hyde incarna: ci troviamo dinanzi ad una corporeità senza freni, ad una pulsione istintuale libera. Jekyll è un medico affermato, che gode di una profonda stima da parte dei suoi concittadini, è una persona che è disponibile verso l’esterno, che opera per lenire le sofferenze e i dolori degli altri, è in ultima analisi un uomo ordinato che usa il suo intelletto per sistematizzare la realtà. Così descritto però Jekyll potrebbe far pensare erroneamente ad una personalità chiusa, schematica da un punto di vista caratteriale dove come quadro prevalga un Super-Io rigido. Ma Jekyll non è questo o per lo meno non solo. Jekyll incarna la figura dello scienziato che sublima gli istinti e crea: incarna il prototipo di chi guarda oltre la crosta, di chi trasgredisce con la ragione un ordine costituito. Potremmo usare in modo anomalo, ma fortemente esplicito le parole che Laing usa a proposito di questa ricerca analitica; l’esperienza di questo viaggio è quella dello spingersi sempre più dentro del risalire la propria vita individuale, dentro, all’indietro, attraverso e al di là, fino all’esperienza dell’umanità intera dell’uomo primitivo, di Adamo e forse ancora oltre: fino al modo di essere degli animali, dei vegetali, dei minerali. Durante questo viaggio ci sono molti pericoli di perdere la strada, di confondersi, di fallire in parte, persino di fare, alla fine, naufragio: vi sono molte paure, spiriti e demoni da incontrare, che si può riuscire a superare oppure no. [...] In questo tipo particolare di viaggio, la direzione che dobbiamo prendere è quella di indietro e dentro, perché fu andando all’indietro e dentro che noi cominciammo ad andare sempre più in basso e fuori di noi. Ci diranno che siamo dei regrediti, rinchiusi in noi stessi e privi di contatti col loro. Vero è che abbiamo da percorrere molta strada all’indietro per rientrare in contatto con quella realtà con la quale tutti non abbiamo più contatti da molto tempo. E poiché si tratta di persone umane, sollecite, che ci vogliono bene, ed hanno tanta paura, si daranno da fare per curarci. Può darsi che ci riescano, ma 13. c’é ancora speranza che falliscano Jekyll dunque è un medico atipico che non si limita alla riproduzione della metodologia scientifica del tempo, ma attraverso uno strumento, la pozione, ricerca e scopre altre dimensioni e aspetti della personalità umana. Stupenda nel romanzo è l’antitesi col collega Dr. Lanyon che taccia Jekyll di sproloqui pseudoscientifici. In Lanyon non c’è trasgressione di una vera ricerca scientifica. In Lanyon la scienza è asservita alla moralità e alla funzione sociale stabilizzatrice. Ecco allora che sotto questa veste Jekyll incarna l’eroe antiborghese per eccellenza che si distacca dalle sue stesse matrici storiche. Hyde è un vagabondo; a lui è negata un’agiata vita borghese, la sua abitazione non può essere che Soho o il laboratorio di Jekyll. Hyde non ha una realtà sociale, Hyde può uscire solo di notte, non riconosce lo scorrere del tempo, parafrasando Freud diremmo che non riconosce un principio di realtà. Le sue pulsioni devono essere subito soddisfatte senza mediazione, Hyde in ultima analisi riconosce solo la realtà dei sensi. La trasgressione di Hyde non è razionale ma è emozionale, impulsiva, rappresenta un Acting out. Tale infatti si manifesta nei confronti di Sir Carew. Stevenson così descrive la vittima: ?quel volto sembrava emanare una purezza e una cortesia di maniere quale più non s’usa, pur con un tocco di aristocrazia e consapevole superiorità?. È proprio contro questa aristocrazia, questa consapevole superiorità che si scaglia l’ira di Hyde. Basta solo che Carew gli chieda il nome di una via perché Hyde lo uccida a randellate. Hyde non conosce il linguaggio di Carew il quale parla con una cortesia borghese che maschera la propria superiorità sociale. Ma l’inconscio non ha realtà sociale, l’inconscio non ha convenzioni e questa dimenticanza è fatale per il povero Carew. Se tentassimo di categorizzarlo negli schemi della psicanalisi classica lo potremmo definire come la punta dell’iceberg. In lui infatti troviamo un io forte, apparentemente ben strutturato che attraverso una ratio di tipo illuministico cerca in maniera imparziale di sistematizzare la realtà. Le pulsioni istintuali vengono inibite e canalizzate sotto forma di curiosità scientifica; ciò permette all’io Jekyll di ordinare la realtà, incasellando e sistematizzando la propria istintualità. Jekyll attraverso la pozione o meglio ancora attraverso l’autoanalisi scopre ancora prima di Freud, che l’uomo è un sistema di entità multiple incongrue e in dipendenti che interagiscono tra di loro alla ricerca di una supremazia. La scoperta di Hyde rappresenta per Jekyll la presa di coscienza della propria distruttività, della propria realtà istintuale. Ma Jekyll però non può accettare la coesistenza in sé di più nature, e si difende proiettando una parte di sé al di fuori, in un’altra figura: ed ecco che nasce il doppio, il mostro. Con la nascita di Hyde l’io ha operato in modo da ottenere un duplice scopo: innanzitutto realizza la pulsione istintuale in forma indiretta: ?È Hyde il 13 Da La politica dell’esperienza di R.D. Laing. mostro? e quindi l’io rimane puro adottando un atteggiamento morale nei confronti del proprio doppio. Jekyll, nella prima parte del romanzo, non si sente minacciato da Hyde, anzi si relaziona a lui con sentimenti di protezione, quasi con apprensione paterna: ne condivide i piaceri, le avventure, con trepidazione, con ansia e anche con partecipazione profonda. All’inizio Jekyll, dunque, si sente padrone del campo, cerca quasi una sintesi con l’altra natura: significativo a tale proposito il testamento con cui lascia all’amico Hyde i suoi beni in caso di scomparsa superiore a tre mesi. Jekyll ha la presunzione di poter gestire Hyde e quindi l’es in ogni momento: non si sente minacciato perché il mostro appare sotto comando solo con l’ingestione della pozione e può scomparire con il semplice antidoto, ma l’io Jekyll non si rende conto che l’es, è sotterraneo, lavora sotto per così dire, e non c’è superio che tenga quando gli istinti libidici richiedono soddisfazione. Diverso è invece l’atteggiamento di Hyde; egli si relaziona a Jekyll con indifferenza filiale, si ricorda di lui come il brigante si rammenta della caverna quando è braccato. Hyde sente con rancore, quasi con odio il vincolo della natura che lo ha legato a Jekyll: quando le possibilità glielo permettono Hyde scarabocchia i libri di Jekyll, appicca il fuoco alle lettere, ne fracassa il ritratto del padre. L’atteggiamento di Jekyll nei confronti del proprio doppio è possibilista. In Hyde invece regna la completa disistima nei confronti del partner; solo la paura del patibolo e quindi l’istinto di conservazione permettono ad Hyde di mantenere tale relazione. Nella relazione finale di Jekyll l’autoanalisi diventa più incisiva, vediamone i contenuti. Mettermi dalla parte di Jekyll significava soffocare quegli appetiti alla cui soddisfazione m’ero votato in segreto e ai quali da ultimo avevo finito per indugiare anche troppo. Scegliere Hyde invece, voleva dire ripudiare mille interessi e aspirazioni e divenire all’istante un essere disprezzato, un escluso?. La scelta poteva sembrare facile, ma c’era un’altra considerazione da mettere in bilancio, perché, mentre Jekyll avrebbe sofferto le pene dell’inferno nella rinuncia Hyde non si sarebbe nemmeno accorto di quanto avrebbe perduto. ?Per quanto occasionale fosse la mia situazione i termini dell’alternativa che dovevo fronteggiare erano comuni all’uomo di ogni tempo. In queste poche righe possiamo ancora una volta ritrovare i misteriosi legami che uniscono letteratura e psicanalisi. Queste frasi potevano essere benissimo scritte da Freud nel Disagio Della Civiltà ben quarantaquattro anni più tardi. Qui Stevenson ci pone di fronte ad un dilemma esistenziale: quello della soddisfazione istantanea dei propri istinti (Hyde) e quello della rinuncia delle proprie pulsioni (Jekyll). Solo più tardi con l’avvento della psicanalisi questa dicotomia sarà superata perlomeno sul piano teorico: Stevenson nel romanzo può solo enunciarla senza dare una risposta definitiva. In questa dicotomia Jekyll-Hyde c’è in fondo l’essenza stessa, il nucleo autentico della patologia mentale. E non si tratta di optare per Jekyll e Hyde perché in fondo Hyde non è l’opposto di Jekyll ma qualcosa nel suo interno. Il tema di fondo è quello della non integrazione tra le varie forze e in seguito parleremo di istanze psichiche che compongono questa macchina complessa e misteriosa che è la personalità umana. Jekyll-Hyde dunque sono le istanze psichiche non integrate che non riconoscendosi in un sistema indivisibile si annientano definitivamente. Ma cerchiamo ora di addentrarci ancora di più in questo romanzo della dissociazione cercando dei punti fermi che ci permettano di proseguire la nostra strada: se Jekyll-Hyde si trovano in uno stato di inintegrazione, cosa significa l’opposto, integrazione? Integrare significa letteralmente mettere in relazione, collegare cioè delle cose che virtualmente sono separate, distinte. Visto sotto questo profilo tale termine indica la fusione e la sintesi di più parti che sfociano nella formazione di un’Entità Unica. Ma il dare vita ad un tutto unico, che derivi dall’armonica rispondenza delle diverse parti, non è ancora unità. L’essere uno compiuto in se stesso sottende il concetto di indivisibilità. In ultima analisi potremmo definire il concetto di integrazione come la risultante di più elementi complementari di varia provenienza nel quadro di un’organizzazione unificata e ormai non più divisibile in parti. Alcune frasi del noto matematico Poincaré illustrano bene, a mio avviso, il processo che conduce all’integrazione: un nuovo risultato per avere qualche valore, deve unire fra loro elementi noti da tempo ma fino a quel momento slegati ed apparentemente estranei l’uno all’altro ed introdurre improvvisamente l’ordine là dove regna l’apparenza del disordine. Ecco allora che ad un tratto ci accorgiamo del posto che ogni singolo elemento occupa nell’insieme. L’analisi del concetto di integrazione in campo psicanalitico o più generalmente psichiatrico presuppone quindi l’individuazione di quelle forze, biologiche e non, che, sebbene integrate insieme, corrispondono allo sviluppo dinamico e alla maturazione della personalità umana. Ritornando al romanzo l’es (Hyde) è il serbatoio degli istinti che devono essere soddisfatti senza mediazione alcuna con la realtà esterna. L’es è sotto il dominio del principio di piacere, il bisogno è placato solo dopo essere stato abreagito. L’io (Jekyll) è però dominato da un superio che uccide gli istinti e che non può accettarne l’esistenza nel campo di coscienza: rimozione e proiezione quindi ne permettono la conversione in Hyde. L’elemento fondamentale che manca in Jekyll è la costituzione interna nell’apparato psichico di un principio di realtà che dilaziona il principio di piacere senza ucciderlo. Stevenson molti anni prima di Freud ci dice che è pericoloso negare la forza interna dei nostri istinti e che tanto più l’uomo diventa civile tanto più deve rinunciare alle proprie pulsioni istintuali e tanto più quindi è infelice. Più che ad una morte fisica ci troviamo di fronte ad una morte interiore ad una disintegrazione dell’io. Il romanzo poteva benissimo concludersi con la pazzia di Hyde. La morale comunque non cambia, il messaggio ormai risulta rimarcato in tutta la sua forza rivoluzionaria. In fondo Stevenson ci dice che esistere senza un corpo equivale a non esistere e che l’uomo si disintegra se non tiene conto della propria natura. Il Dr. Jekyll e il cinema Il racconto è stato trasformato in pellicola ben quaranta volte. Le prime trasformazioni cinematografiche risalgono addirittura ai primi del Novecento, famoso è rimasto il Jekyll muto del 1920 diretto da John S. Robertson interpretato da John Barrymore. Nello stesso anno esce in produzione USA questa volta è Sheldon Lewis nella parte del mostro. Nel 1931 la parte è affidata a Friedrich March, diretto da Rouben Mamoulian. Questo film verrà per sessanta anni dimezzato e letteralmente stravolto nel suo messaggio più autentico dalla bigotta censura americana. Solo quest’anno la RAI ha riproposto la versione integrale. Del 1941 la versione più bella è il Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Spencer Tracy con la stupenda direzione di Victor Fleming (quello di Via col vento per intenderci). Fleming ha letteralmente copiato sia la storia che la scenografia del film di Mamoulian, ma ha avuto il pregio, a mio avviso, di far conoscere al largo pubblico la profonda carica sensuale di una attrice come la Bergman. Nel 1960 è il Mostro di Londra con sottotitolo Le due facce del Dr. Jekyll. L’interprete principale è Paul Massie, la regia è di Terence Fisher. Degna di nota, inoltre è la realizzazione televisiva interpretata da Giorgio Albertazzi. Nel 1961 Jean Renoir dirige Il testamento del mostro con Jean Louis Barrault. Tutte queste edizioni fanno parte integrante del cinema dell’orrore, ma ci sono anche delle edizioni in chiave umoristica, ricordiamone alcune; un musical per la TV con Kirk Douglas (1973) ed alcune parodie di Jerry Lewis e Paolo Villaggio. Vediamo adesso più da vicino le interpretazioni e le modifiche a volte purtroppo mutilanti che ha subito Jekyll nello schermo. La versione più bella, a mio avviso, lo ripeto, è quella del 1941. L’interprete principale è Spencer Tracy. Forse scelta più felice non poteva essere fatta, Tracy infatti incarna più di altri la tipologia del doppio; la fronte è spaziosa, gli occhi piccoli e guizzanti, la bocca troppo larga denuncia una piccola stonatura su un volto così puro. La realizzazione tecnica del film è eccellente; la fotografia è quasi perfetta; l’atmosfera del film è sostenuta con toni crescenti da un bianco e nero che esalta il mistero e mantiene vigile l’attenzione dello spettatore. Anche la musica è in tono con lo svolgersi del film. Il clima storico è sempre quello del puritanesimo vittoriano, ma nel film si avverte un sottofondo di libertarismo americano e la sessualità vi gioca un ruolo di primo piano. Fleming dirige il film nel 1941, solo due anni dalla morte di Freud ed oramai la psicanalisi è divenuta parte integrante della cultura occidentale e dell’interpretazione della realtà in generale. Nel racconto di Stevenson la sessualità appare in una forma alquanto velata; non ci sono donne nel romanzo. Forse l’unica immagine erotica è quella della bambina di dieci anni che alle tre di notte si scontra con Hyde ad un crocevia. L’immagine che ci balza agli occhi è quella di un’adolescente con i capelli lunghi biondi, un po’ mossi per la caduta, vestita con un abito bianco che non copre interamente le ginocchia sbucciate. Secondo la descrizione del romanzo Hyde casualmente si scontra con la bambina; unico elemento di colpa per lui è quello di non averla aiutata ad alzarsi: ma Hyde appare disorientato dell’accaduto e costretto a risarcire la bambina in denaro. La scena dell’aggressione ha forti connotati simbolici: tutto si svolge in un’atmosfera onirica. I contenuti inconsci sono quelli di un attentato alla verginità. Ma la purezza della bimba è carica di sensualità, è l’immutevole gioco del vedere ma non toccare; che ci fa una bambina alle tre di notte in una buia stradina di Londra, che ci sta a fare se non per suscitare e far vibrare le corde della nostra sessualità più repressa? Nel film la polarità Jekyll-Hyde si gioca tutta sul tema della sessualità! Potremmo anche dire che la polarità è tra sessualità quotidiana ed Eros. Nel film il tema del doppio non verte solo sulla figura antitetica del mostro: la dualità Jekyll-Hyde serve al regista per mettere in evidenza la vera protagonista del romanzo che è la ?rappresentazione simbolica della donna? nell’inconscio maschile. È questo un tema che la cinematografia conserverà in seguito con firme di grandi maestri come Buñuel e Fellini vedi rispettivamente Quell’oscuro oggetto del desiderio e La città delle donne. La polarità che Fleming ci offre è l’eterno tema irrisolto nell’inconscio maschile tra Beatrice ed Eva. Beatrice è interpretata da Lana Turner: ufficialmente è la fidanzata di Jekyll e la sua massima aspirazione è divenire la sua signora. Beatrice richiama subito alla mente l’immagine dantesca. È colei che accompagna il divino poeta nel suo viaggio al paradiso. È la donna incontaminata, pura, è la donna angelo che fuori dalla passione terrena guida il nostro verso la pace dei sensi, verso un nirvana senza fine. L’aspetto fisico ne denota i connotati simbolici; la Turner è la classica madre-moglie americana, i tratti del viso sono regolari a tal punto da rimanere insignificante, il viso è pulito acqua e sapone: il fuori insomma è l’espressione del dentro; e Jekyll sa che può perdersi nei suoi occhi perché non rimarrà solo, perché non rischierà di ritrovarsi in qualcosa d’irrisolto. Beatrice insomma è il quotidiano, è l’ordine strutturato della realtà è un posto sicuro dove l’uomo bambino può placare le proprie ansie. Ma la tranquillità dell’essere, il nirvana esistenziale si paga con la morte e per Jekyll moderno Faust non è ancora venuto il tempo dell’eterno riposo. Lasciando la casa della fidanzata insieme al suo amico Lanyon, Jekyll una sera, è spettatore e poi artefice risolutore di una tentata aggressione nei confronti di Eva, una ragazza che si guadagna da vivere lavorando come cameriera in un locale notturno. Eva, interpretata da Ingrid Bergman, è di una bellezza sconcertante, i capelli corti mossi un po’ all’indietro fanno da cornice a due occhi senza fondo, lo sguardo è malizioso senza però perdere le caratteristiche di una dolcezza indefinita, il fuori non è però il tutto, non è solo l’immagine di dentro, dentro c’è di più e solo pochi fortunati possono scoprirlo: è l’Eros personificato, fatto donna, è l’immaginario femminile, è lo psichico che si fa carne. Jekyll riaccompagna a casa Eva e dopo un languido bacio riesce a recuperare il suo controllo e si chiude in laboratorio. Di eccezionale forza penetrativa è nel film l’immagine del laboratorio di Jekyll. L’ambiente è reso in un modo tale da rappresentare quasi l’anticamera dell’in conscio. Fa parte della casa di Jekyll e tuttavia la trascende. È in questo ambiente magico fatto di scale tortuose, di alambicchi, pipette, provette e formule magiche che si consuma il passaggio dello Stige. Il laboratorio, o meglio la pozione, permette al Dr. Jekyll il recupero della propria realtà interna; una realtà non codificata da leggi razionali ma fatta di simboli a volte contrastanti; è la terra di nessuno, dove i contrari coesistono, dove il caos regna indisturbato. L’ingestione della pozione provoca a Jekyll delle allucinazioni che Fleming rende in maniera davvero mirabile. Dapprima c’è un laghetto con delle ninfee che suscitano una sensazione di pace, di ordine perenne, ma un turbine sconvolge questo equilibrio (la pozione comincia il suo effetto destrutturante) l’acqua forma un mulinello, sotto ancora c’è del fango e oltre la crosta c’è Jekyll stesso che frusta due stupendi cavalli, uno bianco e uno nero, che poi si trasformano in Beatrice ed Eva; e ancora nella seconda trasformazione in Hyde ci sono le due donne racchiuse in una bottiglia di vetro ma Hyde-Jekyll sceglie Eva e con un cavatappi ne libera tutto l’Eros vitale, dalla bottiglia fuoriesce una lava vulcanica, un magma incandescente e poi c’è Eva distesa che ride nell’abbandono dei sensi. La pozione permette un ampliamento del campo di coscienza, una maggiore capacità di percepire e di spaziare nel proprio mondo interno. Così Hyde commenta le sue sensazioni per la prima volta guardandosi allo specchio: Cos’è! Non sono le mie guance eppure lo sono. Non è la mia bocca eppure c’è qualcosa che assomiglia alla mia bocca, che cosa strana i miei occhi. Questo è dunque il male che l’uomo ha fuggito e schernito e poi nascosto in fondo a sé, che fin dall’inizio dei tempi è stato fonte di dolore e di vergogna. Dolore, vergogna, io non provo dolore, 14non provo vergogna. Il male è stato calunniato il male è una cosa bella. Mentre l’atteggiamento del Dr. Jekyll nei confronti della propria donna è tipicamente razionale ed iscritto in un codice morale (l’amore di Jekyll verso Beatrice prevede il matrimonio), l’atteggiamento di Hyde nei confronti di Eva è di dominio completo. Hyde paga il proprietario del locale dove lavora affinché la licenzi, le compra una casa e in seguito la mantiene. In Hyde non c’è ricerca di rapporto paritario, Hyde vuole possedere la sua Eva adesso, ora, senza limiti, senza mediazioni con le convenzioni sociali e senza bisogno di futurizzare il rapporto. Il maschio Hyde dunque domina la scena, chiude dentro casa Eva, spesso la picchia, e i segni di questo possesso senza limiti rimangono impressi sul corpo di Eva. Detto in questi termini il dominio di Hyde sembrerebbe il risultato di una supremazia di forza fisica nei confronti della donna: ma se la pulsione sadica è l’elemento determinante, il masochismo di Eva ne rappresenta il rovescio della medaglia. Eva infatti quando incontra Hyde per la prima volta ne rimane fortemente attratta. È l’ambiguità di Hyde, quel viso di una bruttezza che balza subito agli occhi ma che nasconde qualcosa di ancora più perverso, più morboso, che attirano Eva nella trappola senza via di scampo. Non possiamo certo dire che Eva sia innamorata di Hyde, ma è certo che l’attrazione della sua deformità fa vibrare le corde dell’immaginario femminile. Eva pensa che può lasciarsi andare al possesso maschile, la sua natura ambigua ne appare all’inizio gratificata. Il mostro del resto fa di tutto per suscitare il narcisismo femminile; ?vieni, le dice, l’arcobaleno ci aspetta, piccola selvaggia, le dice, sempre pronta a prender fuoco, e ancora: ?quando un botanico scopre un fiore raro esulta nel suo trionfo?. Gli aggettivi che Hyde usa fanno parte del linguaggio dell’amore sono scritti con l’inchiostro dei sensi, ed Eva non può nulla nei confronti di chi ha decodificato la propria sensualità inespressa. Ma questo abbandono al maschio costerà caro ad Eva perché Hyde appartiene a quel genere di maschi in cui il possesso è 14 Citazione dal film di Victor Fleming Lo strano caso del Dottor Jekyll e del Sig. Hyde. sinonimo di distruzione. Eva verrà uccisa dal proprio amante in un momento in cui le pulsioni di oggettivazione sessuale lasceranno il posto ad una violenza non più contenibile. Eva muore perché pecca di presunzione, perché non capisce di essere alle prese con un maschio caratterialmente rigido, un maschio che essendo insicuro non lascia spazio alla libera espressione dei sensi. Il film termina con la morte del mostro; questa volta però Jekyll non si suicida, ma viene ucciso con un colpo di pistola dal suo amico George Lanyon. Il collega quando Hyde beve la pozione e ridiventa Jekyll, gli dice: ?ti rendi conto di quello che hai fatto??. Hai commesso il ?supremo sacrilegio!?) Ma qual è questo supremo sacrilegio, questa profanazione del tempio benedetto? È l’aver valicato i confini dell’animo umano, è l’aver esplorato nel proprio immaginario maschile; è l’aver scoperto che nella simbologia inconscia maschile esistono più donne. Jekyll muore perché la propria immagine del femminile è fortemente dissociata, muore perché non riesce a saldare dentro se stesso i vari aspetti dell’universo donna. Ancora una volta il tema di fondo è quello della non integrazione è quello di un vissuto schematico e rigido che non permette una sintesi dei molteplici aspetti che compongono la nostra realtà interna. Ora, se potremmo permetterci un paragone con un altro film, diremo che la pellicola di Fleming potrebbe rappresentare l’immagine in negativo di un altro capolavoro della cinematografia che è la La città delle donne di Fellini. Qui, il protagonista, Marcello Mastroianni, si addormenta in treno mentre sta addentrandosi in un tunnel. In sogno, Marcello, incontra molte donne che lo coinvolgono in maniera diversa ma che lui non trattiene, alla ricerca della donna ideale. E così incontra la femminista con cui sperimenta la propria paura della castrazione, e poi la donna materna che lo aiuta quando è in pericolo e poi ancora la moglie, la terrorista, la disimpegnata che vive solo di droga. In questo universo il protagonista si muove a disagio con toni di conquista carnale alternati a paura, a sdegno, ad indifferenza e ostentata superiorità, a senso di colpa: finché si rende conto che la donna ideale non esiste; ma esiste un mondo diverso da quello maschile che va vissuto sino in fondo gustandone l’ambiguità, l’evanescenza, ma anche la forza che sotto lo anima. E allora Marcello può risvegliarsi in treno ritrovarsi vicino le sue donne per riaddormentarsi di nuovo senza ansia, ma anzi contento di addentrarsi nel tunnel. 6. Il ritratto di Dorian Gray Sotto i piedi d’argilla che rendono preziosa una statua d’oro. OSCAR WILDE Il Ritratto di Dorian Gray viene dapprima pubblicato sulla rivista Lippincott’s monthly magazine il 20 giugno 1890. Oscar Wilde lo realizza in pochi giorni, quasi per scommessa, perché un amico sosteneva che non avrebbe mai potuto scrivere un romanzo. L’anno seguente, siamo nel 1891, il romanzo viene pubblicato in volume ed è subito scandalo. Le fonti ispiratrici sono I racconti di Pietroburgo di Gogol’, in cui gli occhi di un usuraio gli sopravvivono su di una tela, e il Ritratto ovale di Poe. Nel 1915 un regista russo Vsevolod Emilevi? Mejerchold ci regala la prima interpretazione cinematografica del Ritratto [Portret Doryana Greya]. Il racconto narra la storia del bellissimo Dorian a cui il pittore Basil Hallward fa un ritratto. Affascinato dalla propria immagine riflessa dal dipinto, Dorian esprime il desiderio di rimanere sempre giovane; in cambio sarebbe disposto a tutto, anche a vendere la propria anima: questa preghiera, espressa con tanta forza interiore, viene ascoltata dalle forze del male ed il moderno Faust realizza il proprio mostruoso desiderio: sarà il quadro ad invecchiare mentre Dorian otterrà l’elisir dell’eterna giovinezza. Garantendosi così l’immortalità, o meglio parafrasando la tesi centrale del mio libro, rimuovendo l’angoscia della decadenza fisica e quindi della morte, Dorian si abbandona ad una serie di eccessi sfrenati all’insegna della più sconsiderata dissolutezza morale: suo compagno di viaggio e maestro nell’edonismo è un moderno Mefistofele, Lord Henry Wotton. Questi è un intellettuale eccentrico, colto e raffinato che si atteggia a cinico e che ha costruito la propria filosofia di vita intorno al culto della bellezza estetica e del piacere più ostinato e dissoluto. La bellezza è una specie di Genio, in verità più grande del genio, perché non ha bisogno di spiegazione. È una delle cose grandi del mondo, come la luce del sole, o la primavera o il riflesso nell’acqua cupa di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna. Non è una cosa che si possa discutere. Ha il divino diritto alla regalità. Quelli che 15la possiedono sono dei Principi. Ma di quale bellezza ci parla Lord Henry? Non certo della bellezza come la intendevano i greci; non certo come pura pace contemplativa, come armoniosità delle 15 Citazione da Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. forme. La bellezza per Lord Henry è la ricerca dei sensi, al servizio del piacere fisico e spirituale e al magico fascino della perversione. Lord Wotton si muove nel mondo della rispettabile società borghese con toni di malcelata ironia, mettendo a nudo l’ipocrisia e la falsità dei rapporti cosiddetti normali. Celebri sono i suoi aforismi; ?tra le cose più attraenti del matrimonio c’è quella di rendere assolutamente necessaria ai coniugi una vita d’inganni?. Oppure: ?Le persone mi piacciono più dei princìpi e le persone senza princìpi mi piacciono di preferenza?. E ancora: ?L’unico modo di liberarsi da una tentazione è cedervi?. E poi: ?Le cose sacre sono le sole che vale la pena di profanare?. A questo punto non posso fare a meno di notare delle analogie tra Lord Henry e il Dongiovanni bergmaniano il quale, ritornato dall’inferno, così si presenta alla donna che vuole conquistare e che sta per sposarsi con un altro: ?il matrimonio è l’arma segreta dell’inferno?. ?L’assenza di princìpi è il mio unico principio, l’inganno la mia 16morale, il vizio la mia virtù, la miscredenza la mia unica fede?. Lord Henry Wotton, a mio avviso, è l’immagine dell’intellettuale che ha un acuto bisogno di razionalizzare le proprie spinte emozionali in una sorta di difesa esistenziale. Egli ha sviluppato un distacco dalle cose terrene e ha trasformato i sentimenti, in artifizi della mente atti solo ad ottenere delle sensazioni. Dorian è letteralmente soggiogato da questa figura elegante e perversa, aristocratica ed estremamente pratica, e i frutti di questo diabolico connubio non tarderanno a manifestarsi. La prima vittima di Dorian sarà Sybil Vane, una giovane attrice che recita ogni sera in un teatrino di secondo ordine. Dorian, raffinato edonista, viene attratto da questa creatura così semplice e inesperta nella vita ma così passionale e veemente sul palcoscenico, quando si accende di amore nelle vesti di Giulietta, e di ardore guerriero nei panni di Rosalinda. Una sera Dorian invita i suoi amici Basil e Lord Henry al teatrino per conoscere Sybil. Ma ormai Sybil non ha bisogno di recitare sulla scena quello che ormai gli appartiene nella vita: la sua recita è un fiasco colossale. Sybil perde se stessa come attrice, perché ha trovato nell’amore se stessa, la propria verità di donna: ma Dorian, è incapace di raccogliere il divino dono di una donna che concede tutta se stessa. Dorian è incapace d’amare; Sybil lo interessava solo in quanto evocatrice di amori già codificati in una cornice artistica e quindi incapace di attentare alle difese narcisistiche di un maschio caratterialmente rigido. Ancora una volta Sybil rinnova il dramma esistenziale tipico ed esclusivo della scimmietta umana: l’esperienza cioè della solitudine più profonda e senza appigli di chi ama non riamato, di chi rischia la propria integrità psichica nell’immaginario dell’altro. Sybil sente di camminare come un fantasma sul prato dell’immaginario maschile; figura impalpabile, senza peso, invisibile addirittura e quindi irrimediabilmente perduta nel vissuto affettivo dell’amato. 16 Citazione dal film di Ingmar Bergman L’occhio del diavolo. La risposta esistenziale a questa sofferenza è solo una; Sybil si uccide perché non può vivere senza amore. Il suicidio di Sybil non è certo il gesto disperato di chi non ha più nulla da perdere, ma è l’affermazione più profonda della propria individualità di donna che non può vivere in un mondo dove è negato il valore dell’amore: Sybil è forse l’archetipo di una razza nuova o forse vecchia quanto il mondo; è il simbolo di quella categoria di scimmiette capaci d’amare e che rendono la vita agli altri muti mortali più facile da sopportare. Ripenso allo Jacopo foscoliano che si uccide perché incapace di vivere in un mondo dove non può esprimere l’amore per Teresa e perché tradito da Napoleone stesso nei valori più alti di uomo che fa la storia. Paradossalmente viviamo in un mondo dove i più forti sono quelli che hanno chiuso i boccaporti alla vita e si sono eclissati in un mondo dominato da un quotidiano banale e senza senso. Ripenso al mio Jacopo, a mio figlio; tenera scimmietta scapigliata, forse unica vera mia risposta all’indifferenza dell’universo. Ma ritorniamo a Dorian e scusiamoci con lui per averlo lasciato sospeso in un guazzabuglio di sensazioni contrastanti. Dorian si chiude nella propria camera e riguarda attentamente il ritratto, nella incerta luce che riusciva a filtrare dalle tende di seta crema, il viso del dipinto gli apparve un po’ mutato: l’espressione sembrava diversa, pareva che qualche cosa di crudele contaminasse la bocca... cose se si fosse guardato in uno specchio, dopo aver commesso una perfidia?. Il ritratto rivela dunque l’altra faccia della luna: è Dorian che compie i delitti ma le colpe ricadono sul quadro o se vogliamo sull’anima che, negata da Dorian, e quindi scissa dal proprio substrato biologico vede la mostruosità del corpo. Da questo momento Dorian relegherà il proprio doppio in soffitta per nasconderlo agli occhi del mondo: ma non basta nascondere le proprie colpe per pensare di non averle commesse; non serve alloggiare in soffitta quello che dovrebbe abitare con noi e condividere le nostre intime cose. In un momento di profonda disperazione Dorian cederà alle insistenze di Basil che voleva rivedere la propria opera: ma questa rinnovata curiosità artistica sarà fatale per Basil che verrà ucciso con un colpo di pugnale da Dorian. Il ritratto ancora una volta modifica le proprie sembianze caricandosi di una bruttezza raccapricciante fino al momento in cui Dorian cercherà di distruggerlo con uno stiletto: Dorian prese l’arma e colpì il ritratto: si udì un grido e poi un tonfo?. I servitori entrati, videro appeso al muro uno splendido ritratto del loro padrone, quale l’avevano visto l’ultima volta, in tutta la magnificenza della sua meravigliosa bellezza e gioventù: per terra giaceva un uomo morto con un coltello piantato nel cuore. Era canuto, il viso raggrinzito e ripugnante. Soltanto esaminando gli anelli riuscirono a riconoscerlo. Rileggo le pagine che ho scritto: una melliflua e indefinita sensazione di disagio mi attanaglia le budella, mi sale dalle viscere, come una serpe, che credutasi irrimediabilmente perduta, finalmente ritrova la via per respirare il mondo. Adesso la sensazione si fa più nitida, più distinta: mi accorgo solo ora che stavo per accoltellare Dorian. Lascio cadere lo stiletto; le mani sudate vomitano piccoli movimenti ritmici, il corpo, anch’esso sudato, si dilata a dismisura per proteggere questo mio figlio che non riesce a nascere. Cesso di contrarre i miei muscoli, una leggera brezza mi alita sulle natiche, un dolce profumo di primavera: in fondo è bello anche così, forse si dovrebbe recuperare il gusto delizioso e senza pretese di essere stitici. Ma mentre sto godendo di questa verità ritrovata, i meccanismi ossessivi e reiteranti dei miei circuiti neuronali riprendono la loro ostentata attività di capire e conoscere. Rileggo nuovamente ciò che ho scritto; la sensazione che stavo rimuovendo Dorian è diventata oramai una statuaria realtà oggettiva, si è trasformata in qualcosa che ha un peso, uno spessore, e che quindi può essere sezionata, analizzata; mi accorgo allora che col bisturi della ratio ho banalizzato Dorian: egli non è quel mostro che tenta di rimuovere la morte negandola, non solo questo per lo meno. Dorian è il rifiuto dell’artista di concepire una vita funzionale impostata sulla ricerca del potere economico e manageriale. È il guerriero che pone la sua spada e il suo scudo al servizio del piacere: unica cosa di cui valga veramente la pena di ricercarne una teoria. Il piacere o se preferiamo l’Eros è il consenso della natura, è il suo modo di approvare. ?Voglio mangiare il frutto di tutti gli alberi del mondo: mordere i frutti terrestri con saldi denti voraci?. Dorian è con noi quando abbandoniamo per un istante la nostra natura di scimmiette replicanti e rischiamo il dolce e inebriante abisso di una sensazione nuova; egli è presente quando apriamo il cuore ai profumi e al vibrante sapore dell’incertezza. Dorian forse era con me quando una notte d’estate ho pianto con le stelle il mistero del mondo o quando il mare in tempesta alitandomi addosso rimescolava in me arcane angosce inespresse. Dorian è ora con me mentre sto scrivendo queste pagine che mi appartengono e quando a volte si spalancano le porte della percezione del mio sentire il mondo, e respiro l’immediatezza del tutto: attimo fuggente, impalpabile ma degno d’eternità. Dorian è l’odore di muschio di un buon vino corposo, è la cristallina eleganza di uno champagne consumato in una tacita intesa: sono gli occhi senza fondo di una donna che non ti appartiene. Dorian è una maglietta di lana, è una tazza di latte appena munto, è la brina sui campi, il sole sulla pelle, un cane che sonnecchia, un bimbo che gioca con il suo sesso impubere: Dorian è la mia curiosità, è il mio consenso al mistero dell’universo, è il mio grido senza speranza all’indifferenza del mondo. Finalmente una luce squarcia il velo avvolgente delle tenebre: per un attimo la figura di Dorian si staglia nitida e sembra voglia comunicarmi qualcosa. Forse che bisogna aprire le porte alla percezione, che sentire è meglio che conoscere, che non si pagherà mai abbastanza una sensazione: ma mentre sto beandomi di queste verità, il manto inesorabile della regina notte sommerge nuovamente la piccola zattera della mente. ?Come si fa a mettere ordine nelle nostre cose quando tutto quello che c’è di 17 veramente importante accade nell’ombra?? 17 Dallo spettacolo teatrale di Giorgio Gaber Il Grigio, che a sua volta riprende Il libro dell’inquietudine di Pessoa. 7. Il cinema dell’orrore ovvero il mostro è in gabbia Che cosa è l’orrore? L’orrore è una questione di gusto, e non mi riferisco al sangue. ALFRED HITCHCOCK Una cosa a cui, ogni qualvolta ripenso, mi lascia sconcertato, è che la fama di cui oggi godono i mostri passa per lo più per le rappresentazioni cinematografiche che non per le opere letterarie. I primi film appartengono addirittura al cinema muto ne ricordiamo alcuni: 1908 Il Dr. Jekyll e Mr. Hyde Selig 1908 Il Dr. Jekyll e Mr. Hyde Murnau. 1910 Frankenstein J.S. Dowley Edison 1920 Il mostro di Frankenstein di Testa Sono questi i primi tentativi, teneri nella loro bambolesca ingenuità, di ridare sullo schermo qualcosa che per tanto tempo, forse troppo, l’uomo ha celato dentro di sé. Ma è con l’avvento del sonoro che nasce il cinema dell’orrore. La musica ora tetra, e a tratti guizzante, contribuisce all’evocazione dell’universo perturbante. Siamo nel 1930 e in America è la casa cinematografica Universal a partorire i primi due colossal: Dracula U.S.A. 1931 Tod Browning Frankenstein 1931 J. Whidle Alla fine degli anni ’50 fiorisce l’horror inglese, soprattutto ad opera della Produzione Hammer e nella regia di Terence Fisher: La maschera di Frankenstein 1957 La maledizione di Frankenstein 1957 Dracula il vampiro 1957 La vendetta di Frankenstein 1958 Distruggete Frankenstein 1958 Il mostro di Londra 1959 Ormai i semi del terrore hanno germogliato ed oggi possiamo adottare i nomi di Dracula e di Frankenstein nel nostro linguaggio più usuale magari per significare l’atteggiamento vampiresco di alcuni nostri uomini politici o per spiegare l’incontro con qualche persona non proprio attraente. Cerchiamo adesso di proseguire il nostro ?viaggio al centro delle tenebre? facendoci afferrare dai tentacoli avvolgenti della celluloide: la sensazione che si prova però è di rimanere sempre in superficie, di non intaccare neppure lievemente il magma incandescente che sotto ribolle. Il Frankenstein della Shelley è una creatura che vibra tra le pagine. Quando sfogliamo il romanzo viaggiamo con Frankenstein sui ghiacciai nevosi del Monte Bianco, respiriamo l’odore selvaggio delle isole Orcadi, ci ripariamo gli occhi dalla sferzante luminosità del bianco polare: partecipiamo alla profonda ribellione dell’ingiustizia, il sapore sempre dolciastro della vendetta. Eros stesso traccia il sentiero della trasgressione più cerebrale. Se riportiamo tutto ciò al Frankenstein cinematografico, ci troviamo di fronte ad un essere che barcolla, inebetito dagli elettroshock e dagli psicofarmaci, esasperazione della forza della ratio nei confronti del magma destabilizzante della diversità e della follia. Cosa è rimasto nell’universo cinematografico, del mostro che piange con le stelle il mistero del mondo e partecipa alla struggente e solo umana passione del Werther? E non possiamo accontentarci nemmeno della parola dimenticanza o di libera interpretazione dell’opera, per sottolineare la monumentale opera di rimozione che il cinema ha messo in atto nei confronti del mostro. Ma non voglio per ora azzardare delle conclusioni ma continuare questa passerella grottesca e certo non perturbante dei mostri cinematografici. Nel 1931 Tod Browning si cimenta col Dracula. In questo film la storia risulta addirittura stravolta; è Renfield e non Jonathan Harker a compiere il viaggio verso il castello di Dracula: ne consegue che il tema del doppio così caro al romanzo di Stoker, rimane talmente marginale che si dissolve integralmente col susseguirsi delle immagini cinematografiche. Nel ’58 la Hammer produce Dracula il vampiro. L’interprete principale è Christopher Lee. Il film costa settecento sterline e ne incassa decine di migliaia; comincia così la fortuna della Hammer che in pochi anni scaraventa nel panorama cinematografico decine di film fatturati con mostri demistificati, razionalizzati, confezionati come marionette senza fili e dati in pasto ad un pubblico sempre più vorace: e tale sorte non risparmia neppure i vari Jekyll e Dorian Gray, privati del loro dramma esistenziale e costretti ad indossare i panni del pazzo del paese o dell’omosessuale stravagante. Dal cinema, al teatro, ai divertimenti costruiti delle nostre feste mascherate, la figura del mostro è sempre presente come suppellettile di bon ton: evocatore di frizzanti bollicine di paura condita con una ilarità maliziosa fin troppo ostentata: ma come non basta celare il sole dietro un dito affinché questi non esista così Dracula continua a svolazzare nel nostro immaginario, vittima e carnefice al tempo, della nostra stessa natura. 8. Curiosando tra le fauci del mostro Ci sono molte cose che non funzionano, e se continuiamo a volere far funzionare tutto, continueranno a non funzionare. A questo punto una domanda sale dalle viscere, attanaglia la gola prima di fluire amplificata inondando all’esterno: perché il cinema ha rimosso il Mostro? Sento che sono arrivato ad una stazione importante del nostro viaggio al centro delle tenebre e che non posso più ormai dilungarmi per ritardarne l’arrivo. Un forte calore mi accende le guance, il cuore galoppa all’impazzata, una languida sensazione liquorosa si scioglie nel corpo. La paura, antica compagna delle mie interminabili notti bambine, abbandona lo scudo e getta le armi dinanzi ad un nemico invincibile. La voglia di conosce re, il bisogno di sapere, il contatto con l’inconoscibile, rimescolano in me arcane presenze primordiali. Quel Qualcosa è di nuovo presente ed alita su di me il suo fiato ammaliante. Quel Qualcosa mi sconquassa nel corpo, mi penetra nelle ossa, mi inebria come un orgasmo sofferto: il suo profumo denso ha il sapore dei primordi, mi avvolge il cervello di vapori inebrianti: il corpo dapprima ammansito e soggiogato da tanto diletto, violentemente si inarca contraendo i propri muscoli; la mente regina della luce e del giorno spezza quell’incantesimo mortale. Sento che forse posso catturare quel Qualcosa che vive con me, dentro di me, al di fuori di me. Un sudore freddo mi imperla la fronte, gli occhi recuperano l’ordine del mondo, i contorni delle cose, i piedi poggiano nuovamente su di una terra amica. Finalmente i fantasmi della mente hanno preso forma. Che cosa dunque ha voluto rimuovere il cinema dell’orrore razionalizzando la figura del mostro e soffocando quel vagito che sgorgava così spontaneo dalla letteratura gotica? Fondamentalmente questo: il Mostro è l’immagine materializzata dei nostri contenuti emozionali più profondi; è il compagno di viaggio che racchiude la nostra natura più intima e segreta; è il figlio cattivo che non possiamo riconoscere e che quindi scacciamo dai nostri contenuti coscienti: ma come non si può modellare a proprio piacimento l’acqua del mare, così il mostro vittima della nostra stessa paura di vivere diventa carnefice e quindi protagonista dei nostri incubi solitari. L’effetto perturbante del mostro, così tanto strettamente collegato alle sensazioni di morte e di autodistruzione è forse scaturito dal supremo sacrilegio che il genere umano ha commesso nei confronti della propria stessa natura. Il mostro ci parla di noi, ci dice cose che non vogliamo sentire. La nostra società, nutrita con i miti di benessere e di immortalità, ha sempre cercato di soffocare la carica destrutturante e psicologicamente rivoluzionaria che anima la simbologia del mostro. La nostra scuola ufficiale ha categorizzato la letteratura dell’orrore come letteratura di second’ordine. I nomi di Stoker e della Shelley non compaiono sui nostri libri di testo: ma se non conosciamo la paternità di Dracula e di Frankenstein, se possiamo esorcizzarne il loro angoscioso messaggio, non possiamo però negarne l’incontrastato dominio nell’immaginario collettivo: basta chiudere gli occhi per un istante, trovarsi in una strada buia e deserta per evocarne la presenza: sfuggente, impalpabile, ma profonda; una presenza carica di attrazione e di paura; un’ambivalenza maliziosa che ci fa dire sì, quando il no sarebbe d’obbligo. Qualunque società o sistema culturale aspira all’ordine; in ogni nostra azione e pensiero abbiamo bisogno di regole, di leggi; ma ogni ordine crea i propri mostri; ogni legge ha in sé il concetto di trasgressione e quindi di peccato. Tutta la nostra esistenza può essere interpretata come il tentativo di dare coerenza all’incoerenza, una coerenza ordinatrice che non può avere successo perché culmina con la morte. Ed ecco allora che come Victor Frankenstein cerchiamo di mettere insieme i nostri pezzi, di costruire il nostro ordine interno; cerchiamo spregiudicatamente con tutte le nostre forze di rendere compiuto ciò che non si può compiere; e quando alla fine pensiamo di aver partorito la nostra opera interna, ci accorgiamo che abbiamo dato di nuovo alla luce il mostro di Frankenstein; materializzandone di tutto ciò che è riuscito a metà, dei nostri desideri non compiuti. Una smisurata sensazione di tenerezza cosmica mi avvolge le membra; non posso fare a meno di provare un affetto così tenero nei confronti di questa scimmietta umana che quotidianamente costruisce sul niente la propria stabilità psichica: penso all’Amore. Al bisogno illimitato di affetto che ci sospinge e a quella briciola limitata di amore che riusciamo ad afferrare e a dare. Non è così per tutti? Una frase imperiosa tuona dall’alto e mi distoglie dalla mia melensa verità ritrovata: L’ideale avvelena ogni possesso imperfetto e nell’amore ogni possesso e imperfetto, e ingannevole, ogni piacere è misto di tristezza, ogni godimento è dimezzato, ogni gioia porta in sé il germe del dubbio, e i dubbi guastano, contaminano, corrompono tutti i 18diletti. Forse dovremmo imparare a convivere con la nostra fragilità e rinunciare per sempre ai miti di onnipotenza e di immortalità che abbiamo, anche nei sentimenti. Forse dovremmo imparare a vivere l’immediatezza del presente invece di ricercare il paradiso perduto del passato o inseguire i miti di un futuro che non sappiamo se verrà mai. Forse dovremmo imparare a sentire la flebile voce del corpo, anziché rincorrere i richiami della mente nella sua corsa verso la morte. Sento che Frankenstein, Dracula, Jekyll, Dorian, attraverso i loro errori e i loro drammi comuni mi stanno dicendo tutte queste cose. Un bagliore improvviso illumina 18 Citazione da Il Piacere di G. D’Annunzio. per un istante il lato oscuro della luna, queste parti di me mi stanno comunicando il loro umanesimo misconosciuto. Ad un tratto tutto mi sembra così estremamente chiaro. Il mostro è quella parte di noi che non accetta il fine ultimo della morte e si ribella inventando miti di eterna giovinezza e di immortalità futura: il mostro è la costante attività razionalizzante della mente che ordina, incasella, controlla e dunque ci conserva da questa verità sconcertante e inaccettabile. A questo punto sento il bisogno di definire il significato di una parola, forse in modo improprio e del tutto personale, per continuare il nostro Viaggio. Userò il termine Thanatos per indicare questa costante attività razionalizzante e ordinatrice della mente che ci consente l’attuazione della rimozione della morte. Non voglio equiparare questo termine all’istinto di morte freudiano, in quanto Thanatos, non è la coazione a ripetere, il bisogno intrinseco della materia vivente a ritornare allo stato inorganico. Non voglio equiparare Thanatos nemmeno al principio di realtà freudiano perché in esso non compare il concetto di angoscia esistenziale legato alla tematica della morte. Forse Thanatos è più assimilabile all’angoscia di morte e al meccanismo intrinseco che ne consente la rimozione. Paradossalmente Thanatos racchiude tutti i meccanismi di difesa che ci consentono di allontanare ed arginare il problema della morte. Penso alla morte. Mi tornano alla mente le parole di Bousquet così cariche di questa agghiacciante verità senza rimedi. ?LA MORTE È LA SOLITUDINE DELLE PERSONE AMATE, QUESTA NEBBIA INTORNO A LORO CHE NESSUNA TENERA PAROLA PUÒ ATTRAVERSARE. LA MORTE È IL DOLORE E LA DISPERAZIONE NELLE STESSE PAROLE CHE FURONO L’EBREZZA DELLA FELICITA LA MORTE SONO I PIANTI CHE SGORGANO ASCOLTANDO UNA PAROLA CHE VOLEVA DIRE AMORE?. Ripenso a mio padre: tenera scimmietta scapigliata, incomprensibile anello di congiunzione con i fumi densi del passato, con la notte dei tempi. Ripenso alla sua presenza, così sommessa, appena accennata, quasi intangibile; a quel suo naturale pudore di vivere cercando di non dare fastidio agli altri: ripenso a quella sua atavica quanto sana capacità di rimuovere la morte vivendo. Lo rivedo mentre con la curiosità sempre rinnovata di un bambino tira su le reti, con gesti agili e sicuri, carico dell’emozione del presente, fedele solo all’immediatezza del momento. Ripenso a quell’insegnamento senza pretese, all’incapacità di mio padre di vivere di passato e di costruzione sul futuro: saggezza fatta di niente, fragilità virile di una tipologia umana ormai quasi scomparsa. Ripenso a Thanatos, alla capacità intrinseca di ogni essere umano di rimuovere il problema della morte. Rimozione che è possibile fintanto che la morte è raccontata, esorcizzata, come cosa che succede agli altri. Quando la morte ci tocca da vicino, quando quest’abisso orrido e senza fondo inghiotte una persona cara e insostituibile, la sofferenza sgorga pura e impetuosa dalle crepe della nostra onnipotenza; il dolore lacerante e senza rimedi non può essere addolcito da nessun mito di cartapesta. È questo un momento di lacerazione totale dove si ha la sensazione di dilatarsi a dismisura e di non poter riuscire a contenere tutta la sofferenza che affiora; la sensazione di essere divorati dai morsi di una solitudine senza scampo; ci si accorge che l’amore non basta a preservare ciò che amiamo: impotenza senza speranza, solitudine senza appiglio, sofferenza senza colpa. Ciò che si prova è di aver toccato il fondo, di essere scesi nella realtà ultima delle cose; di aver scoperchiato lo scrigno marmoreo di Dracula: ma se sopravviviamo a tale sconvolgimento, abbiamo la possibilità di rinsaldare insieme i frammenti di un umanesimo ritrovato, la possibilità nell’accettazione del nostro dramma esistenziale, di rinnovare un affetto profondo e senza ideologie a questa tenera scimmietta scapigliata. Sì è proprio vero: sono i piedi d’argilla che rendono preziosa una statua d’oro. 9. Eros e Thanatos: gemelli dell’anima Non vi è sole senza ombra e bisogna conoscere la notte. ALBERT CAMUS Rileggo le pagine precedenti: sento di aver scoperchiato il freddo talamo di Dracula, anticamera dell’abisso, vuoto incolmabile fatto di niente. Con l’aiuto di Thanatos ricopro il macabro segreto che l’immagine del mostro ha celato dentro sé, fin dalla notte dei tempi. Ripenso a Thanatos, a questa forza interna che ci permette di rimuovere il problema della morte. Paradossalmente Thanatos, questa pulsione così intimamente collegata allo spettro assurdo del fine ultimo è al servizio dell’istinto di sopravvivenza e quindi della vita. Thanatos è con noi quando incuranti della fugacità della esistenza umana costruiamo l’onnipotenza del futuro, magari portando i nostri soldi in banca o pensando alla pensione. Thanatos è con noi quando ci sottoponiamo al sacro vincolo del dovere e rinunciamo all’attimo fuggente, all’immediatezza del presente: ci guida, quando rinunciamo al fuoco della passione e ci accontentiamo di sopravvivere di una esistenza fatta di rapporti piatti e banali. Thanatos è sempre con noi quando vogliamo cogliere la complessità del mondo solo con la logica della mente, dimenticandoci che abbiamo un corpo a cui abbiamo negato il diritto di esistere. Un vecchio proverbio cinese, la dolce saggezza orientale mi viene in aiuto: ciò che non è ancora apparso si previene facilmente. Agisci prima che qualcosa sia, crea 19l’ordine prima che ci sia disordine. Thanatos in fondo è questa forza interna che crea l’ordine, che ci allontana da questa verità opprimente e incomprensibile che è la morte. Ma vivere secondo Thanatos, contentarsi solo di vedere il mondo con gli occhi ordinati della mente significa privarsi della forza destrutturante della contraddizione e dell’ambivalenza, significa negare il valore intrinseco della vita solo perché è destinata ad avere una fine. Ed ecco allora che il mostro con un ruggito primordiale ci vomita addosso la propria rabbia di esistere, ci rende consapevoli, al di là di ogni possibile ?rimozione? del nostro diritto alla vita. Il mostro dunque è l’alter ego che cerca nell’onnipotenza una modalità di esistere, una difesa alla propria sopravvivenza, ma che poi percependo l’ineluttabilità della morte, ci esprime come può la nostra sete di vita. 19 Relazione di Lao-Tsu. Thanatos, come Giano Bifronte, ci mostra per un istante l’altra faccia di se stesso, è Eros l’altra faccia della Luna, il figlio disvelato e nascosto che la figura del mostro custodisce con cura. Il mito greco ci dipinge Eros come un giovanetto malizioso e dotato di una naturale perversità. Secondo Alceo, Eros viene generato da Zefiro e Iride, vale a dire dalla dea della discordia: e già da questo particolare possiamo comprendere come Eros sia il frutto di una instabilità o quanto meno di una situazione dinamica di movimento e di cambiamento. Secondo Platone, durante la celebrazione della nascita di Venere, Poros dio della ricchezza e della prudenza si innamora follemente di Penia dea della povertà e del bisogno. Il mito di Eros, connaturato nella mirabile e commovente perfezione della semplicità esprime più di ogni altro la profonda ambivalenza che alberga nell’animo umano. Eros è figlio della ricchezza perché nelle rare volte che lo percepiamo, nel rosso senza tempo di un tramonto o nella felina e inconsapevole sensualità di una donna che non ci appartiene ci sentiamo penetrati da un sentimento di pienezza, sazi della nostra emozione così imponente. Ma non a caso Eros si nutre e trae calore dalle poppe appena abbozzate della madre Penia perché è nella povertà e nel bisogno che attinge la propria linfa vitale. Eros non costruisce nulla, non trattiene nulla, non aspira ad alcunché, brucia tutto ciò che tocca, si consuma con la scintilla stessa che gli ha dato la vita. Eros è figlio della povertà perché significa dare importanza al niente, è la consapevolezza che la libertà di perdersi esiste, che è una possibilità esperenziale a cui noi tutti potremmo accedere. Eros è il trionfo dell’uomo sul divieto; quel divieto inferto da Thanatos, da quella voce interna cioè che si ostina a modellarci la vita come se la nostra esistenza fosse immortale. Se dunque Thanatos conserva, Eros è la forza per eccellenza che distrugge, che attenta alla stabilità del quotidiano, è il Caos che subentra all’illusorio equilibrio del mondo. Eros è in fondo la percezione inebriante e senza pretese del nostro essere vivi, del piacere immediato e impalpabile di un’emozione fuggente. Eros sembra percepire che la vita debba avere una fine e ci induce a bruciarla nell’immediatezza del momento: se Thanatos vive e si alimenta dei ricordi del passato e nella costruzione di un futuro, Eros vive nelle emozioni del presente. Se Thanatos è collegato come ho detto precedentemente all’istinto di vita paradossalmente Eros è collegato all’istinto di morte. Quando percepiamo una gioia intensa e ci sembra così vicina alla sofferenza, quando ci sentiamo felici al punto di avere paura ripercorriamo il dramma esistenziale che ci lega alla natura umana. Eros ci collega direttamente al pensiero della morte e torniamo a rifugiarci nelle materne e sicure braccia di Thanatos. 10. L’approdo IL MOSTRO: ?Una parte della forza che vuole sempre il male ma opera sempre il bene?. J.W. GOETHE, Faust Sento che sono giunto al termine del Viaggio al centro delle tenebre. Adesso che il mio libro è concluso percepisco con chiarezza, forse per la prima volta, la motivazione che mi ha spinto a prendere questa penna in mano e a buttare giù le prime righe. Scrivere sui mostri significa dare voce ai propri fantasmi, significa provare a dare un’occhiata a questo pozzo nero che sta dentro di me: sicuramente non sarò riuscito a vedere in fondo ma già quella piccola parte rischiarata ha suscitato in me emozioni vitali. In questo pozzo c’è la mia confusione, c’è la mia atavica angoscia di voler dare una risposta a tutto, ma c’è anche la sicurezza che forse è importante porsi delle domande senza aspettare risposte. Dentro me Eros e Thanatos danzano insieme e cantano il loro inno alla vita con la percezione lucida e sofferta che non è meno bella perché deve finire. Come Frankenstein ho rimesso insieme i miei pezzi, il mio libro, ho vomitato adesso sto meglio. Sento che l’immagine del mostro con quella carica di attrazione e di paura, con quella impressione affettiva sfuggente mi ha reso un po’ più consapevole della mia complessità interna. Adesso so che è importante trovare la forza per confrontarsi col male, che solo attraverso il mio buio posso sperare di vedere uno spiraglio di luce, posso ambire e sentire la mia vita psichica. Finalmente il mostro cessa di avere quell’effetto perturbante di attrazione e di paura e condivide con me i frammenti di un umanesimo ritrovato. Forse questo non è il termine del Viaggio al centro delle tenebre ma solo l’inizio di una nuova visione del mondo in cui porto dentro la speranza e l’angoscia che mi lega al resto degli uomini. Sì è proprio vero: ognuno di noi riunisce in sé il Cielo e l’inferno e ?chi nega l’abisso, 20rischia anche di negare l’esistenza del cielo?. 20 Citazione da Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Bibliografia AA.VV., Il doppio: psicoanalisi del compagno segreto, Red, 1990. BECKFORD W., Vathek, Einaudi, 1989. BRANCA-OSSOLA (a cura di), Gli universi del fantastico, Vallecchi, 1988. CAMUS A., Il mito di Sisifo, Bompiani, 1980. CAROTENUTO A., Eros e Pathos, Bompiani, 1987. CESERANI-LUGNANI-GOGGI-BENEDETTI-SCARANO, La narrazione fantastica, Nistri-Lischi, 1983. CHAMISSO, Storia meravigliosa di Peter Schlemihl, 1985. D’ANNUNZIO G., Il piacere, Mondadori, 1965. DE MARCHI L., Scimmietta ti amo, Longanesi, 1984. ELLMANN R., Oscar Wilde, Rizzoli, 1991. FALZON (a cura di), Aforismi di Wilde, Mondadori, 1987. FREUD S., Il perturbante - Al di là del principio di piacere - L’io e l’Es - Disagio della civiltà, Boringhieri. FUNARI E. (a cura di), Il doppio, Cortina, 1986. GIOVANNINI F. (a cura di), Vampirismus, Alfamedia, 1986. GOETHE F.W., Faust, Mondadori, 1980. HAINING P. (a cura di), Al cinema con il mostro, Mondadori, 1981. JACKSON R., Il fantastico, Pironti, 1981. JULLIAN P., Oscar Wilde, Einaudi, 1972. LEOPARDI G., Pensieri, Loescher. Zibaldone, Mondadori. 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Ringrazio in primis Manlio Prosperi per aver così bene letto nei miei pensieri profondi consigliandomi la lettura del Frankenstein in un momento particolare della mia vita: l’amicizia in fondo è soprattutto questo: un gesto muto alla coscienza che parla alle emozioni. Un pensiero, per i colleghi Crescenzo Paliotta, Maria Rosaria Alesiani, Cesare Cardi, Antonella Filastro e al gattopardo Salvatore Caruso con i quali ho dibattuto le varie parti del libro. E poi come non riconoscere i consigli soffusi ma puntuali degli amici Francesco Arlotta e Francesca Rizzuto. Un grazie di cuore inoltre a Martino Stirparo, Patrizia Proietti, Giuseppe Laccetti per la cura grafica al computer e per l’attenzione con cui hanno seguito il mio lavoro. La mia profonda riconoscenza va ai prof. Luigi De Marchi e Giancarlo Lehner, mio professore di lettere al liceo, per i quali nutro un affetto che ulteriori parole non potrebbero esprimere. E, in ultimo ma non per ultimo, ringrazio mia moglie Francesca, per la sua presenza discreta ma insostituibile. Ma come si fa a ringraziare una donna con cui si condivide nel bene e nel male l’esperienza di questo ?viaggio?? L’amore è muto: ma parla alle stelle! Massimiliano Paris
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